Svami RITAVAN
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Quanti “mantra” ruotano in senso inverso, sono sorti dall’egoismo e senza fatica invadono la mente con lo scopo di far proliferare contenuti non funzionali alla propria crescita interiore, per consolidare il senso del mio io, senza alcun scopo etico.
Se la strada è diversa, se è alimentata da una aspirazione al bene, ad una consapevole aspirazione al bene, allora tra il mantra e i pensieri prende forma una coscienza che via via si accende e si illumina. Tra mantra e pensiero può apparire, velato ancora dall’ombra del karma, la coscienza del ‘volto’ sfumato del Sè.
Quest’ultimo può maturare attraverso l’esperienza della vacuità, di lasciare quanto più libera la mente dai suoi contenuti ed osservarli senza darle un oggetto. Questa è una esperienza “di vetta”, ogni desiderio emerge e si dissolve in virtù dell’umiltà che accompagna la saggezza.
La coscienza porta in sé, nel coacervo karmico, i desideri più o meno maculati del proprio egoismo per trasformarli in qualcosa di diverso, di “nuovo”. La zattera che mi ha portato all’altra sponda si dissolve al mettere il piede su quest’altra terra. Questa zattera è il mantra, è la cresta dell’onda su cui restare in equilibrio per giungere sull’altra riva in cui anch’essa si dissolverà nell’esperienza del “tat tvam asi”, “tu sei quello”.
Le parole mi possono aiutare nel guardarmi. Lascio da parte le parole che pronuncio con superficialità e anche quelle che fischietto per occompagnarmi lungo la strada. Anche queste mi aiutano a guardarmi, allochè mi ‘accorgo’ della loro presenza, ma i mantra hanno tra tutte le parole che mi girano per la mente, un ruolo importante, scavano un solco nella mia mente così da far scivolare via i pensieri. Verso i pensieri tutte le pratiche yoga mi mettono in guardia, i pensieri assai spesso si intrecciano nella mia mente e quasi senza volerlo creano una matassa assai intricata.
I mantra sono un pensiero, sono una parola o poche parole amalgamate e fuse tra loro in una unità armoniosa. Nell’affacciarmi a questa realtà posso trovare una strada per intravedere una lucina da seguire. Tutti i mantra sono un supporto per allentare i pensieri radicati nella mente ma agiscono con potenzialità diverse.
Un maestro ti risolve il dubbio nella scelta ma nella società secolarizzata di oggi siamo sempre più spesso maestri di noi stessi, spesso però con la presunzione di essere finanche saggi. Come prima cosa dobbiamo orientare la mente così da entrarla in sintonia con la sorgente luminosa del mantra. La luce che li anima è in realtà null’altro che la nostra luce interiore che si riflette nell’intensità della nostra domanda.
Il mantra è un compagno di viaggio, dapprima ci chiama con una voce sonora, poi con un cenno, poi ancora con uno sguardo e infine ci cammina accanto, in silenzio. È una presenza che non si vede guardandomi attorno ma sento che che è qui e diviene un’onda quieta di fiducia.
Dicevo degli svariati volti che assume. Può apparirci più densa all’inizio del nostro viaggio, poi via via si fa sempre più trasparente. Non sono qualità diverse che si acquisiscono con la pratica, sono tutte sempre presenti, coesistono assieme in una dimensione che non ha un prima e un dopo, sono una matryoska in cui tutto coesiste, celato l’uno nell’altro. L’abilità del praticante consiste nel saper far emergere quella sonorità che sappia accompagnarlo.
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Il mantra è alimentato da una emozione che può condensarsi in una percezione più ricca di se stessi, una intuizione che incoraggia a proseguire. Dall’altro lato vi è il peso del samsara che gioca all’apposto. Per esempio dal vivere una emozione positiva può emergere la possessività egoica, oppure proprio quel seme può ricollegarci alle tante perle che giacciono nel profondo di noi stessi. Come fare a riconoscerle? Perché ci donano un barlume di pace che a sua volta, nel circolo del divenire, è alimento di incoraggiamento nella pratica.
Distinguiamo due realtà, quella in cui si muovono i sensi e i loro oggetti e quella che ci riconduce a noi stessi. Noi viviamo ogni attimo ora affascinati dai molteplici colori creati dai sensi e ora stupiti intravedere anche solo per un attimo una luce dentro di noi. La nostra pratica dovrebbe bilanciare queste due propensioni. Per far questo, abituati come siamo all’estroversione si richiede lo sforzo della pratica. Attenzione a non crearsi un’altra forma di stordimento: distrazioni quotidiane e ubriacatura di pratica. Richiedono entrambe di essere accompagnate dalla chiara visione di chi siamo. Solo allora ci si può rendere disponibili alle risonanze silenziose del mantra.
Nel mantra vi è la possibilità, se a lungo praticato, di superare il dualismo tra questi due recinti, quello del mantra e quello della vita quotidiana. Al posto di questo dualismo potrebbe emergere la loro simultaneità e pervasione. Non si tratta di due “cose”, è la fusione delle due cose.
L’esperienza di questa coesistenza nasce dall’abilità di viverli ‘assieme’, all’insorgere della vivacità dispersiva delle mente simultaneamente si accende il mantra a placarla. Perchè questo accada occorre aver una buona confidenza con il mantra, vale a dire che deve essere a lungo praticato. Allora più che avvalersi del mantra per spengnere i sanskara, questi, in virtù di un mantra interiorizzato, si dissolvo alla loro radice. Se questo non accade allora interviene a posteriori il filo spinato di un mantra “secco”, arroccato sulla difensiva. Perde però, così facendo, la sua apertura alla luminosità. Da un mantra che opera come una àncora che ci tiene saldi in un golfo ad un mantra che illumina con sicurezza la navigazione anche in alto mare.
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Il mantra nutre la ricerca allorchè riesce ad aprirsi alla meta, ad accoglierla, ad interiorizzarne la vitalità, a dissolversi in essa. Quel monaco seduto sulle sponde del Gange getta nella corrente quella domanda che la meditazione gli rivela contingente e fittizia e così fa con quell’altra e così via fino a quando, sull’ultimo foglietto, legge “tu sei quello” allora, realizzata questa esperienza, anche quel foglietto sarà gettato nella corrente del Gange.
La ricerca interiore supera l’invadente ed esclusiva forza del karma che “lega” e di esso si nutre passandolo al vaglio delle virtù della compassione e della benevolenza in primo luogo verso se stessi, poi ancora affievolendo la suggestione dello spazio, vorrei sempre essere altrove da dove sono.
Allora la coscienza potrà essere guidata nella sua ricerca dalla ricchezza del suono o della luce, o ancor più da entrambe.
La luce è la sorgente del vedere, il suono è la sorgente dell’ascoltare. Noi privilegiamo l’oggetto, il “che cosa vedo”, il “che cosa ascolto”. La pratica dello Yoga ci insegna a rimbalzare dall’oggetto, qualunque venatura esso abbia, alla sua sorgente: chi è colui che vede? chi è colui che ascolta?
Entrambe le domande sono rivolte alla stessa meta, sono alimentate dalla stessa sorgente. È bello leggere dei passi in cui queste diverse esperienze dicono o vedono la stessa inesprimibile realtà.
Il luogo del loro incontro per il Buddhismo può essere indicato come vacuità, dove per le Upanishad è espresso in modo più diretto e immediato come “neti, neti”, “non questo, non quello”.
Se ci può essere di aiuto la riflessione, potremmo dire e sperimentare che la luce ha le sua ‘reggia’ in ajna chakra, il punto tra le sopracciglia, mentre il suono in anahata chakra, nel cuore. Nel Buddhismo si parla spesso di mente-cuore, per indicare la loro similarità, anche se è la mente il fattore di illuminazione. In altre tradizioni, per esempio nel cristianesimo, è il cuore che attrae la mente, la luce del cuore di Gesù ne è una bellissima espressione.
Per lo Yoga il mantra so-ham guida l’uomo verso lo sconosciuto, dentro o fuori che sia, il mantra Ham-so è la risposta con cui ogni momento e ogni istante il ritmo silenzioso dell’infinito si esprime con un linguaggio che solo l’amore sa minimamente decifrare. Dentro e fuori di noi, sia dentro che fuori di noi al contempo, la luce e il suono instancabili risuonano, al ritmo del cuore: pace, pace, pace.
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Tre sono le più grandi caverne in cui si celano il suono e la luce. Nel silenzio oscuro della grotta un soffio d’aria, lo scorre di un ruscello in uno specchio d’acqua sono le sole ‘parole’ che si recepisco, la luce indecifrabile tace raccolta nella sua oscurità.
Queste tre caverne sono quella nell’ombelico, quella nel cuore, quella nella mente. I nostri sensi si sono dimenticati delle loro grotte e tendiamo a ricrearle nel nostro appartamento, nella nostra tenda, tra i ‘nostri’ amici, nel partito o nella società. È giusto che sia così se però le alimentiamo assieme nella grande grotta del nostro corpo, nel silenzio rigenerante del ventre della terra, del ventre materno. Perchè questo accada ci serve essere svegli lungo la strada della nostra pratica di raccoglimento, saper seminare profondo nella nostra perseveranza. Ogni seme darà frutto a suo tempo, con la pazienza e la fede-fiducia.
LUCE
Cerchio di luce attorno a me; cerchi di luce attorno a noi
Scissione in due cerchi
“Empatia”, cerchi di Luce che entrano in sintonia tra loro per avvolgerci.
Le Upanishad ci parlo di tre cerchi: bhu, brava, sva gayatri mantra
Quando è presente una dimensione circolare tra queste tre caverne può accadere che si risvegli quella del maestro che avvolge i suoi praticanti. Questo vincolo karmico ed emotivo se rimane chiuso in quella o quell’altra scuola, si ripiega su se stesso. Bisognerebbe comprende che la finalità di una scuola è quella di aprirsi all’altro anzichè chiudersi su stessa. Accanto a queste due esigenze diverse, accomunate dalla scelta comunitaria, bisogna tener presente la via del “monaco”. Quella di chi sceglie di camminare da solo lungo la via del conosciuto pronto a farsi catturare dal incontro con il non-conosciuto. Latente e sottaciuta vi è quell’esperienza forte, quella comprensione profonda del “neti, neti”.
In ogni caso il ritmo del mantra si alimenta al fuoco degli insegnamenti, alla voce del maestro, al suo sguardo. Tra maestro e allievo si può creare una relazione che dissolve la qualità del mantra come dipendenza e può trasformarsi, come ali di un uccello, in una occasione di autentica crescita interiore.
Il mantra può alimentare la nostra meditazione guidandola dal conosciuto verso il non-conosciuto e in questo percorso aiuta la mente a coltivare quella esperienza calma e tranquilla di un”ritorno a casa”, alla nostra natura essenziale. L’esplorare le nostre sensazioni ci aiuta nella ricerca del nostro centro. Quell’ “abitante dell’interno” può riferirsi alla mia natura che si trova centrata in se stessa, ma può anche trovarsi al cospetto di quell’ ”abitante dell’interno” che esprime l’incontro con l’Assoluto che qui risiede.
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Con dharana, raccoglimento unidirezionale, mi concentro su un oggetto qualsiasi, p.es. una candela. Con dhyana la mia attenzione va ad un flusso di cose, come osservare lo scorrere del fiume seduto lungo la riva. Si passa cioè da una concentrazione su un oggetto e ad un ”mantra nel movimento”. Quest’ultimo sviluppo di dhyana la rende capace di riconoscere il ‘qui e ora’ nel flusso di ogni attimo. Allora possiamo dirci davvero ”amici della mente”.
In un ulteriore passo il mantra da sostegno o guida che sia, si risolve nel silenzio. Nella mente pur silenziosa vi sono ancora, soggiacenti, i samskara, gli impulsi accumulati dalle azioni precedenti, pronti ad ogni stimolo e ad ogni minima distrazione, a riemergere. Il mantra può tornare nuovamente a smussare queste emergenze creando ”nuovi solchi” in cui far scorrere la mente. Allora ritroviamo nella nostra mani, se non li abbiamo già dimenticati!, i principi di una pratica che alimenta nuova pratica, di una dedizione a questo sottile lavorio e la perseveranza nell’alimentarlo. La meditazione ci riconduce a noi stessi, ai nostri i momenti piacevoli o difficili, sino al varco della morte.
Mi sento dire: “io sto bene come sono!” vuol dire semplicemente che hai accettato la tua abitudine. Ma “chi sono io?”: a questa domanda comincia invece un viaggio, un pellegrinaggio. Metto nello zaino la meditazione, un mantra che mi ricorda sempre la giusta strada, la preghiera come apertura del cuore. Occorre dare inoltre un nome alla mia contemplazione, grandi aspirazioni, pace, verità sono sorrette da un mantra che avvolga la nostra vita quotidiana. Occorre formulare una risoluzione.
Il panorama è quello che si delinea con il satcitananda, essere, conoscenza, gioia. Occorre nutrire il corpo con la vibrazione del respiro, con quelle sensazioni sottili che pervadono il corpo, fare di sè un corpo vibrante sull’onda del respiro.
Il mantra è sempre presente “io sono quello” tat tvam asi. Il mantra personale, datoci dal maestro, scorre nella stessa direzione. Occorre essere “qui”, riposare nel proprio essere, dove possono sgorgare sia la vibrazione del mantra sia, materializzato in un gesto o in una parola, il ”namaste”, rendo omaggio alla presenza dell’infinito in te, in me, in tutti gli esseri. Così, pian piano, nel grande contenitore del corpo, fluisce il prana e con lui quella sonorità del mantra che via via si fa sempre più sottile, senza lingua e labbra. Il mantra cioè è un suono che esce dalla bocca, è un suono che vibra senza muovere le labbra, è un suo risuonare senza suono, la luce del mantra sembra dissolversi, diviene un tutt’uno nel silenzio.
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NO NO NON ANCORA!
DISEGNO DEL CUORE CON LE FRECCETTE VERSO AJNA
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Il mantra risiede silente nel cuore e risuona in ogni cellula del corpo, tutto il corpo “canta”. L’atman e il brahaman, nel mio cuore e nel cosmo tutto, sono l’eco profondo del mantra che risuona: Om tat sat. Questo mantra, che guarda all’Assoluto, è accompagnato dal neti, neti, la disentificazione da ogni addensamento egoico. Namah, lode a Dio, nulla è mio, tutto appertiene al Signore. Come dice la Bhagavad Gita (VI,6): “Il Sè è amico di colui per il quale il sè è stato vinto dal Sè”.
Il sentimento è un punto nevralgico. Sviluppiamo il sentimento del silenzio: io-mantra-Dio. Si placano le onde agitate nel lago della mente ed emerge l’eco della profondità, un silenzio senza parole. Il sentimento, accendendosi a queste profondità, diviene sentimento dell’unità.
La meditazione non è qualcosa da fare, è qualcosa da essere, essere nella meditazione. La preghiere è il grande mantra vedico: “Dal non essere fammi andare all’essere/ dalla tenebra fami andare alla luce/dalla morte fammi andare all’immortalità” (Brihad-aranyaka Upanishad, I,3,27).
In realtà non sono io a meditare, la meditazione mi ‘prende ‘, è il mantra che mi conduce, invitiamolo allora a guidarci. Tutte le cellule del corpo danzano in unità con il divino. Io appartengo a Dio; io sono tuo, ti guado faccia a faccia; io in te, tu in me affinché si sia perfetti nell’unità. Il mantra si dissolve nel corpo, il corpo è animato dal mantra. Tat tvam asi.
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Il nostro percorso parte dai miei limiti, dalle mie difficoltà. Non così per la nostra anima. Il nostro sé è sempre stato uno con il Sè, l’atman è da sempre la mia casa. Il brahman-atman si riflette nell’oceano quieto della sacralità della vita. La luminosità si manifesta e si identifica con la preghiera, con l’espressione sottile del mantra, la preghiera senza parole, ajapa. Affonda poi in noi come pensiero. L’onda del mantra si esprime risuonando nella mente e nel corpo.
Allo sfocarsi di questa esperienza, ecco l’emergere dei pensieri, i samskara trovano uno spazio in cui si sia indifesi, uno spazio in cui nuovamente possano diffondersi nei più vari pensieri. Eccoci qui nella quotidianità. La mente non percepisce più il reale (vedi inno vedica), il tat sat. Si trasforma con successive identificazioni con le cose, con il mio io molteplice.
La meditazione può costituire il varco per riconnettersi alla luce, il mantra la consolida e ci ricorda il messaggio: chi sono io? Si riparte, con pazienza e devozione, per la pratica, si segue la traccia verso una pace, sia interiore, sia quotidiana.
Bisogna vedere con chiarezza che cosa sta accadendo, riflettere con la mente sulla mente, in ogni pensiero, in ogni azione. Il potere del mantra va consolidato. Negli YS questa esigenza si alimenta attraverso il samyama, laddove concentrazione, meditazione e raccoglimento interagiscono in un continuo processo di affinamento. Ricordarsi del mantra è frutto di un sentimento, un sentimento orientato al bene, un sentimento per il mantra.
Occorre sensibilizzarsi alla ‘voce interiore’, creare un dialogo interiore, sviluppare i samkalpa. Occorre guardare le nostre intenzioni, affinarle in un discorso cosciente, così ci si potrebbe riconnettere con l’anima, con l’atman. È una attività incessante, una attenzione continua, ben sapendo il potere subliminale che hanno i samskara.
In questo colloquio bisogna cercare sempre di prendere avvio dalla condizione più silenziosa della mente per consolidarla. La nostra intenzione è di parlare a partire dalla quiete del cuore, con la ferma intenzione di trasmettere a tutti gli esseri lo stato silenzioso della nostra parola e del nostro essere. La parola sgorga dal silenzio profondo del nostro essere.
È un vivere intenzionale e senza oggetto, è una condizione in cui mantra e preghiera interagiscono. Per lo Yoga manifestare in ‘segreto’ questa sorgente silenziosa è dar luogo a quella profonda interazione tra mantra, amore, servizio altruistico. La nostra casa è in noi e in ogni luogo, è la nostra stanza.
Purtroppo sappiamo quanti “mantra” l’egoismo umano ha diffuso e diffonderà in sè e nell’ambiante circostante. Se la strada è diversa, se è alimentata da una aspirazione al bene, ad una consapevole aspirazione al bene, allora tra il mantra e i pensieri prende forma una coscienza che via via accende il lumina della coscienza. Tra mantra e pensiero può apparire, velata dall’ombra del karma, la coscienza del ‘volto’ sfumato del Sè che può maturare attraverso la vacuità di ogni desiderio. Emerge l’umiltà che accompagna la saggezza. La coscienza matura portando con sè sia il coacervo karmico sia i desideri più o meno maculati dal proprio egoismo trasformandoli in qualcosa di diverso, di “nuovo”. La zattera che mi ha portato all’altra sponda si dissolve al mettere il piede su quest’altra sponda. Questa zattera è il mantra, è la cresta dell’onda su cui restare in equilibrio per giungere sull’altro sponda dove si dissolverà nell’esperienza del tat tvam asi.ra stanza,