Trimle apr – giu 1999 n° 2 Anno I
La Pagoda
Località Quercia Grossa,33 -Pieve a Socana 52016 Castelfocognano (Arezzo)
Anno I n°2 (aprile-maggio-giugno 1999)
L’esperienza della Pagoda di Pieve a Socana – Arezzo
Lo spazio della felicità Evam me suttam – I Discorsi del Buddha Chiamatemi con i miei veri nomi di Tich Nhat Hanh
Lo spazio della felicità Durante un incontro domenicale, prendendo spunto da una lettura, ci siamo accorti che l’Associazione che ci riunisce, non è poi così originale. Si sta muovendo lungo quel sentiero battutissimo, da cui difficilmente si esce, da cui ardua è la liberazione: ridurre il disagio, la sofferenza, il dolore ed alimentare la felicità. Così, in quella domenica di marzo, è emersa la questione della felicità. Che cosa cerco con la mia azione? Che cosa cerchiamo in famiglia, con gli amici, al lavoro? Che cosa ci attendiamo dalla nascita della stessa Associazione “la Pagoda”? Una delle parole magiche potrebbe essere appunto questa: cerco e cerchiamo la felicità. Ma come tutte le magie sono di aiuto al sapiente che le sa usare, nuocciono e annientano chi vi si avvicina con un atteggiamento superficiale. Lo spazio interiore che apre una felicità male indirizzata è quel miraggio nel deserto, che si dilegua appena ci si approssima. L’amarezza diviene allora la verità celata in quest’affannosa ricerca di pienezza. Stranamente ricordiamo con puntigliosità gli screzi che abbiamo subito ad opera degli altri, e spesso neanche il tempo riesce a sciogliere il rancore; ma l’illusione della felicità, nonostante le sofferenze e le delusioni provate, è una porta per la quale ci avventuriamo dimentichi di ciò che è stato, animati da una speranza che sembra rinascere con una tenacia sempre nuova. Come moscerini siamo pronti a gettarci verso la luce, resi ciechi dal desiderio. L’annoso ripetersi dell’illusione. Se la felicità si alimenta di speranza vuol dire che dentro di noi c’è un desiderio insaziabile, che spesso cerchiamo di placare con convincenti surrogati, che però non sono mai soddisfacenti. Dice bene chi osserva, che si accorge di essere felice solo dopo esserlo stato. Allora, da un lato, c’è la felicità di chi anela a qualcosa che lo possa completare e, dall’altro, c’è chi è felice senza saperlo, e si rende conto di aver sperimentato tale condizione solo dopo, allorchè il disagio e la sofferenza hanno ripreso il possesso del campo. In quel momento non stiamo a pesare quanto siamo felici; è solo quando usciamo da tale condizione che ci rendiamo conto dell’intensità di ciò che abbiamo vissuto. In quel momento è scomparso qualcosa, l’ansia con la quale abitualmente ci poniamo davanti alle cose, ansia di essere diversi, di avere. Scompare quello spessore che ci separa dalla vita, l’illusione di essere qualcosa di diverso da ciò che si è. Quando me ne rendo conto la mia coscienza involontariamente ricrea il diaframma, la lacerazione, l’incompiutezza e quindi tutto ciò che è non-felicità. Non rendersi conto di essere felici può essere allora un’immagine attendibile capace di guidarci nell’ambiguo territorio di questa magia. Come l’insonnia ci tormenta quando vogliamo dormire, ma scompare quando il sonno sopraggiunge, così forse la felicità non si troverà mai quando avidamente cercheremo di impossessarcene, ma è lì pronta a venirci incontro, a possederci allorchè ci si abbandona alla vita. Finchè io sono piccolo, vasti saranno i territori che non mi appartengono, più crescerò e più riuscirò ad acquisirne. Ma più è grande l’io più è sterminato il confine di ciò che non ha. Ma quando il mio io si tuffa nella vita, si discioglie come sale nel mare, come possono persistere le differenze, il più e il meno. In quel momento non si chiede più nulla. Non ci si chiede quanto si sia felici: nessuna misura sarà più necessaria. Piccolo e grande, alto, medio e basso, visibile e invisibile, vicino e lontano, nato e non nato, tutto: qui e ora. Tale felicità non ha più a che fare con l’autocontrollo, con la difesa strenua di noi stessi. È una serenità che abbraccia e avvolge, su cui potranno agitarsi i flutti più minacciosi scuotendone con violenza la superficie, il sogno potrà agitare il riposo, ma immergendoci laddove le differenze si dissolvono, non potrà che derivarne un modo diverso di vedere le cose, uno sguardo animato dal sorriso con cui il Buddha si rivolge a noi. Diventare sordi e ciechi di fronte ai disagi e alle sofferenze che turbano la vita di ognuno di noi, a quelle che travolgono l’umanità tutta? Oppure coltivare la voglia di vendicare tutti i soprusi e le angherie che ogni tempo offre allo sguardo dell’uomo? Soluzioni che ricreano divisioni, rigidità che non si diluiscono. Dolore che rinasce, felicità che si dilegua. Eppure solo quel sorriso espresso dal Buddha indica la Via, solo quella luce che circonda il Cristo risorto illumina senza lasciar ombre. Quell’eterna felicità che gli esseri viventi cercano è quella magia in cui il mago stesso scompare, in cui l’intensità non si appaga di questo e di quello, non vuole cose o regni, ma si immerge nella realtà, così com’è, svegliandosi dall’illusione che crea differenze, contemplando con occhio nuovo la vita, scoprendo nella fine della propria esistenza, l’eternità di essere. Evam me sutam (così io ho udito) I DISCORSI DEL BUDDHA Degradazione (Traduzione dal Canone Buddhista Pali -ANGUTTARA NIKAYA) O monaci, vi sono cinque sostanze che degradano l’oro per cui esso, così degradato, non è più malleabile, né lavorabile, né brillante, ma diviene fragile e non utilizzabile per i lavori più fini. Quali cinque? Ferro, rame, piombo, stagno e argento. Queste cinque sostanze degradano l’oro. Ma quando l’oro viene depurato da queste cinque sostanze, esso diviene malleabile facilmente lavorabile e brillante, non è fragile, è adatto per lavori fini e può essere usato per qualsiasi tipo di ornamenti che si desiderino, siano essi anelli, sigilli od orecchini, collane o catene. Nella stessa maniera, o monaci, vi sono cinque degradazioni della mente per cui la mente, così degradata, non è più malleabile, né adattabile, e neppure chiara, ma diviene frammentaria e assolutamente inadatta per la distruzione delle sue radici maligne. Quali cinque? I desideri sensuali, la malevolenza, la pigrizia o torpore, l’ansia o preoccupazione e il dubbio. Questi cinque impedimenti degradano la mente. Ma quando la mente sia depurata da questi cinque impedimenti, essa diviene malleabile, adattabile, chiara, non è più frammentaria e risulta adatta a distruggere le sue radici maligne. Allora uno può piegarla facilmente a realizzare conoscenze psichiche di qualsiasi genere ed a farla divenire un testimonio oculare di ogni esperienza, di qualunque grado essa sia. CHIAMATEMI CON I MIEI VERI NOMI di Tich Nhat Hanh Nel 1986 scrissi una poesia che parlava di una ragazza di dodici anni, una delle tante tra i boat people che attraversavano il golfo del Siam. La giovane si era gettata in mare dopo esser stata stuprata da un pirata; la poesia parlava anche del pirata, nato in un lontano villaggio sulle coste della Tailandia, e di me stesso. Naturalmente io non ero su quella barca, mi trovavo a migliaia di miglia da quel luogo, ma grazie al potere della consapevolezza riuscii a comprendere cosa stesse accadendo su quel mare. Quando ricevetti la notizia di quella morte mi arrabbiai, ma dopo aver meditato per diverse ore mi resi conto che non potevo prendere le parti di quella ragazza e condannare il pirata. Vidi che se io stesso fossi nato in quel villaggio e fossi cresciuto nello stesso modo del pirata, mi sarei comportato esattamente come lui. Mettersi dalla parte di qualcuno è troppo semplice. Questa poesia scaturì dalla mia sofferenza; la intitolai “Chiamatemi con i miei veri nomi”. Ho molti nomi e quando mi chiamate con uno qualsiasi di questi, devo rispondere: “Sono qui”. Non dire che domani me ne andrò, perché persino oggi continuo ad arrivare. Guarda in profondità: io arrivo ogni secondo per essere un germoglio sul ramo a primavera, per essere un uccellino, con le ali ancora fragili, che impara a cantare nel suo nuovo nido, per essere un bruco nel cuore di un fiore, per essere un gioiello che si nasconde in una pietra. Continuo ad arrivare, per poter ridere e piangere; per temere e per sperare, il ritmo del mio cuore è la nascita e la morte di ogni creatura vivente. Sono un insetto che cambia abito sulla superficie del fiume. E sono anche l’uccello, che piomba sull’insetto per inghiottirlo. Sono la rana che nuota felice nell’acqua chiara di uno stagno, e sono anche il serpente che in silenzio viene a divorare la rana. Sono il bambino in Uganda, tutto pelle e ossa, le gambe esili come stecche di bambù. E sono anche il mercante d’armi, che all’Uganda vende strumenti di morte. Sono la bambina dodicenne, profuga su una misera barca, che si getta nell’oceano dopo esser stata stuprata da un pirata. E sono anche il pirata, col cuore ancora incapace di capire e amare. Sono il membro del Politbjuro, con tutto il potere nelle mie mani, e sono anche l’uomo che deve pagare il suo ‘debito di sangue’ al paese, morendo giorno dopo giorno in un campo di lavoro. La mia gioia è come la primavera, così tiepida da far sbocciare fiori su tutto il pianeta. Il mio dolore è come un fiume di lacrime, così vasto da riempire tutti e quattro gli oceani. Per favore chiamatemi con i miei veri nomi, così che io possa udire nello stesso istante tutti i miei pianti e tutte le mie risate, così che io possa vedere che la mia gioia e il mio dolore sono un’unica cosa. Per favore chiamatemi con i miei veri nomi, così che io possa risvegliarmi e aprire la porta del mio cuore, la porta della compassione. Crediamo di aver bisogno dei nemici. I governi ce la mettono tutta per spaventarci e spingerci a odiare, perché così li seguiremo. Se non c’è un nemico reale, ne creiamo uno immaginario per poterci mobilitare. Recentemente sono stato in Russia con alcuni amici americani ed europei, e mi sono reso conto che la gente laggiù è meravigliosa. E per tanti anni il governo americano ha invece definito l’Unione Sovietica come l’impero del male! Non è giusto credere che la situazione del mondo sia nelle mani del governo, e che se solo il presidente mettesse in pratica una politica corretta avremmo la pace. Le nostre vite quotidiane sono legate strettamente con la situazione mondiale. Se cambiano le nostre vite quotidiane, cambiamo anche il nostro governo e possiamo davvero cambiare il mondo. Siamo noi il nostro presidente e il nostro governo. Le persone che ricoprono queste cariche riflettono il nostro stile di vita e il nostro modo di pensare. Il modo in cui teniamo una tazza di tè e prendiamo un giornale, persino il modo in cui usiamo la carta igienica, tutto ciò è in relazione con la pace nel mondo. Quando ero novizio in un monastero buddhista, mi venne insegnato a prestare attenzione a ogni gesto della mia vita quotidiana, e ho continuato a praticare in quel modo per più di cinquant’anni. All’inizio credevo che fosse una pratica adatta solo ai principianti, e pensavo che ai praticanti più avanzati fossero chieste cose più importanti: ora so che la pratica della consapevolezza è adatta a tutti. Meditare vuol dire scoprire la propria natura e risvegliarsi. Se non siamo consapevoli di ciò che sta accadendo dentro di noi e nel mondo, come possiamo scoprire la nostra natura e risvegliarci? Siamo davvero attenti quando beviamo il tè, quando leggiamo il giornale o usiamo il bagno?. E’ più difficile mantenersi attenti nella nostra società. Ci sono molte distrazioni. Sappiamo che nel terzo mondo muoiono di fame ogni giorno 40.000 bambini, ma continuiamo a dimenticarcene. Perciò abbiamo bisogno che la pratica ci aiuti a essere consapevoli. So che alcuni miei amici un paio di volte la settimana si astengono dal cenare per ricordare la situazione del terzo mondo. Un giorno ho chiesto a un giovane profugo vietnamita che stava mangiando una ciotola di riso se i bambini in Vietnam avessero la possibilità di gustare un riso di così buona qualità. Conoscendo la situazione, ha risposto di no. Ha patito la fame in Vietnam, c’erano giorni in cui non mangiava altro che patate rafferme, mentre avrebbe tanto desiderato una ciotola di riso. In Francia ha potuto mangiare riso per un anno di fila, e sta già cominciando a dimenticare. Ma quando gli ho posto quella domanda, ha ricordato. Non potrei chiedere la stessa cosa a un bambino francese o americano, perché non ha mai vissuto l’esperienza della fame. Per gli occidentali è difficile comprendere la situazione del terzo mondo; sembra qualcosa di totalmente estraneo. Ho detto a quel giovane vietnamita che il riso che consuma in Francia proviene dalla Tailandia, e che la maggior parte dei bambini tailandesi non potrà mai nutrirsi con del riso di buona qualità, perché il riso migliore è destinato all’esportazione, e finisce in Giappone o in Occidente in cambio di valuta straniera. In Vietnam abbiamo una qualità deliziosa di banane, che chiamiamo chuôi già, ma né i bambini né gli adulti hanno il diritto di gustarle perché sono tutte destinate all’esportazione. In cambio il Vietnam ottiene armi con cui i fratelli possono uccidersi tra loro e distruggersi. Alcuni amici praticano questo esercizio di consapevolezza: sostengono le spese di un bambino del terzo mondo e ricevono sue notizie di tanto in tanto, così da mantenersi in contatto con la realtà di quella condizione di vita. Cerchiamo di risvegliarci in molti modi diversi, ma la nostra società ci radica ancora nella dimenticanza. La meditazione ci aiuta a ricordare. Ci sono altri modi per nutrire la consapevolezza. Un ragazzo olandese di tredici anni ha visitato il nostro centro di ritiri e si è unito a noi in un pasto consumato in silenzio. Era la prima volta che mangiava in silenzio, e quindi si sentiva imbarazzato. Subito dopo gli ho chiesto se si fosse sentito a disagio, e ha risposto di sì. Gli ho spiegato il motivo per cui mangiamo in silenzio: vogliamo restare in contatto con il cibo e goderci la presenza reciproca. Se parliamo molto, non riusciamo a gustarci di queste cose. Gli ho chiesto se in qualche occasione spegnesse la televisione per gustarsi meglio la sua cena, e ha annuito. Più tardi, nello stesso giorno, l’ho invitato a unirsi a noi per un altro pasto silenzioso, e questa volta gli è piaciuto molto. La società ci bombarda con così tanti rumori che abbiamo perso il gusto del silenzio. Ogni volta che abbiamo a disposizione qualche minuto accendiamo la televisione o alziamo la cornetta del telefono. Non sappiamo come essere noi stessi senza trovare qualcosa che ci distragga. Quindi la prima cosa che dobbiamo fare è tornare a noi stessi e riorganizzare la nostra vita quotidiana in modo da non diventare vittime della società e degli altri. Per educare la gente alla pace possiamo usare le parole oppure possiamo parlare con la nostra vita. Non possiamo dimostrare una pace reale, né possiamo educare bene i nostri figli, se non siamo in pace e non ci sentiamo bene nei nostri panni. Prendersi cura dei propri figli nel miglior modo possibile vuol dire prendersi la massima cura di se stessi, cioè essere consapevoli della propria situazione. Vi invito a sedere con vostro figlio e a contemplare insieme i piccoli fiori che crescono nei prati erbosi. Inspirando ed espirando, sorridete insieme: è questa la vera educazione alla pace. Quando avremo imparato ad apprezzare queste piccole, splendide cose, non avremo più bisogno di cercare ancora. Possiamo trasformarci nella pace, e possiamo fare pace con i nostri amici e persino con i cosiddetti nemici. |