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Se fossi felice solo per ciò che mi accade … La gioia compartecipe

 Accarezzare la vita – per una gioia condivisa – mudita

Chiesero al Dalai Lama quale fosse il segreto di mudita. “Se io fossi felice solo per ciò che mi accade, avrei poche opportunità per esserlo. Ma se io sono felice per ciò che di buono accade agli altri, la mia felicità è senza confini”

  

 A mo’ di introduzione

Un primo punto da aggirare è la qualità di questo “accarezzare”, spesso certi atteggiamenti sono alimentati da frustrazioni, da un buonismo di maniera, da un principio “irremovibile” che proprio per questo ne mina la “naturale” solidità. Preso atto di questo rischio, possiamo trovare già in questa parola l’attitudine alla relazione.

 Accarezzare è un gesto, anche se può risolversi in una inclinazione della coscienza, accoglie in sé qualcosa che ha bisogno o si apre all’ “altro”. E’ la terza delle quattro Dimore Divine le grandi virtù cui il buddhismo fa riferimento come guida nel proprio comportamento etico. Le prime due sono la benevolenza che si apre come un ventaglio che abbraccia via via tutto ciò che la circonda e la compassione per chi soffre, la quarta è l’equanimità, la virtù che sa discernere tra l’irreale e il reale, tra ciò che è e ciò che appare in quanto velato dai nostri giudizi e dai nostri stati d’animo.

 Mudita è la terza virtù cui non si è dato il rilievo che merita. La sua traduzione usuale è gioia compartecipe, gioia condivisa. E’, si diceva, una virtù che si attiva nella relazione con chi, intorno a noi, sperimenta gioia, ma si rivolge anche a quel minuscolo angolo luminoso che c’è nel cuore di chi soffre. In entrambi i casi si coltiva allorché emergono nel nostro animo atteggiamenti pervasi da invidia e gelosia oppure da un sottaciuto  compiacimento per il disagio altrui.

 In un senso più ampio mudita, va al di là di una funzione correttiva a stati d’animo negativi e nocivi per gli altri e soprattutto per se stessi. La gioia compartecipe, l’accarezzare la vita, coinvolge anche l’io tanto da volgerla verso la propria interiorità come fonte di serenità, come gioia condivisa tra corpo-emozioni-sentimenti e la consapevolezza. Ogni sensazione interna può diventare quell’ “altro” cui volgere un sorriso di condivisione e di sostegno. Questa considerazione aggiunge una ulteriore sfaccettatura alla virtù di mudita, che viene così ad inglobare le motivazioni stesse del soggetto agente. Da un relazione emotiva specifica suscitata da un evento esterno, si passa a sfiorare la pelle sottile del nostro animo. Gioire nel far propria la gioia altrui, gioire nel far proprio l’impulso del proprio corpo, del proprio animo.

 

Di che cosa si tratta

Per comprendere il messaggio che mudita ci trasmette è bene confrontare questa attitudine ad una condivisione gioiosa con gli altri e con se stessi con l’attitudine opposta.

 Da qualunque lato prenda avvio questa indagine, il perno è sempre costituito dal ruolo-intensità del nostro io. L’io, l’usuale ‘veicolo’ su cui viaggiamo, si può irrigidire sempre più su se stesso. I suoi ingranaggi si possono arrugginire e allora ecco che l’ego fa proprie qualità pesanti; i timori, i dubbi, le incertezze lo appesantiscono. Quale gioia compartecipe potrà mai scaturire da questa attitudine? In queste condizioni può capitare che la gelosia e l’invidia non trovino neanche il terreno idoneo in cui affondare le proprie radici. L’ego si richiude su se stesso. Nella terminologia yoga (approfondita in una precedente conversazione) si potrebbe dire che una oscura coltre di tamas, di inerzia, avviluppi la coscienza.

 Se l’io è invece sulla via di un suo consolidamento ci troviamo al cospetto di diverse via di sviluppo. Questa attività, sempre in termini yoga, prende il nome di rajas. Questa qualità della mente spinge il soggetto ad un atteggiamento energico nei confronti della realtà, al fare. E’ la propensione a creare, a plasmare la materia, la natura, a ideare, ma anche a distruggere e a danneggiare. Ci troviamo ad un bivio assai marcato in cui questa energia rajasica può volgersi in direzioni esattamente opposte. Da un lato la natura, propria o altrui, può divenire il campo, la gioia compartecipe lo strumento per dissodarlo e l’egoismo si risolverà in un ricco concime. Dall’altro tutto cambia colore, la natura terreno da conquistare, l’aggressività il compiacimento egoistico, più o meno marcato, per il conseguimento dei propri fini o anche per un perverso piacere di distruggere.

 Se nell’individuo è presente una attitudine al bene, all’altruismo, al rispetto di sé e degli altri, qualità pertinenti (sempre con un termine yoga) al sattva allora il suo fare  si svilupperà nel senso di favorire lo sviluppo della vita nei suoi molteplici aspetti. Si potrà impegnare nel creare, p.es. depuratori più efficienti, terapie più congeniali alla salute, leggi più giuste, e così di seguito. Il suo potenziale, il rajas,  si volgerà nel senso del sattva. Nella sua azione cominceranno a distinguersi i segni di un atteggiamento più rispettoso nei confronti della natura tutta, dall’uomo, all’animale, alla vegetazione, e così via fino alle pietre o ai cieli sconfinati. In questo direzione si delinea quella qualità dell’animo che si apre a cogliere il fascino con cui in ogni attimo impariamo a gioire di una gioia che verremo condividere con tutti o che possiamo semplicemente donare con un silenzioso sorriso interiore a chi la sa  o la può cogliere. Mudita  non è più solo antidoto a stati d’animo negativi, invidia e via dicendo, ma diviene il traboccare di una ricchezza che è maturata nelle fucine della nostra interiorità. In tale direzione diviene espressione delle prime due virtù, la benevolenza e la compassione.

Più preoccupante è lo stesso sviluppo egoico in senso negativo. Potrebbe volgersi a compiacersi del proprio potere distruttivo come strumento per affermare la propria potenza. In tale direzione il rajas  si colora delle tinte oscure del tamas, ne viene pervaso. L’aggressività in tutte le sue sfaccettature trova modo di spegnere le delicate luci dell’abbraccio consapevole, della gioia condivisa. L’invidia, la gelosia, il compiacimento per la sofferenza altrui, il danneggiare la natura tutta divengono linguaggio e azione abituale. Da qui si comprende la sofferenza di quei graffi che lacerano la vita intorno e dentro di noi. L’io, serrato su se stesso, si consolida, la vita in ogni suo aspetto viene afferrata, conquistata, acquisita, dominata, diviene “possesso”. Si dissolve anche il più leggero barlume di intimità e con esso ogni spazio di libertà, ogni spazio alla leggerezza dell’abbraccio. Questo io “padrone e dominatore” impersona il ghigno di chi pensa di avere, di essere qualcuno, ma nel possesso la gioia diviene gratificazione egoica, che presto la fa seccare.

  

Quale è la qualità naturale

Qualunque sia la nostra “condizione di natura” abbiamo il dovere di fare i conti con ciò che oggi siamo, con il nostro mondo interiore, con gli altri e con gli spazi diversamente popolati. Fatte salve quelle poche persone che, in virtù del karma, delle azioni passate, già dispongono di questa ricchezza nel loro animo e la sanno irraggiare con la leggerezza di un soffio, per gli altri, per tutti noi mudita è una virtù da coltivare, è un esercizio da fare, è un impegno sulla via del bene. In altri termini è in sé gioia e sforzo, è uno sforzo gioioso. Da qui scaturisce l’importanza di educarsi ed educare a fare di questa ricchezza il patrimonio prezioso per guidare la nostra esistenza e quelle delle nuove generazioni che si affacciano, ancora innocenti, a questo mondo dai profumi e dagli odori più disparati.

 E’ dentro di noi la sensazione che la vita che si condensa e raggruma nell’io e si fa ubbidiente alle sue più disparate pulsioni, sia la via maestra, la più naturale. Il più forte che domina il più debole, il più astuto che soffoca il più semplice.  Il molteplice intreccio dei nostri cinque sensi, avviluppati da una mente reattiva e  priva di consapevolezza di sé, è mosso da una sete insaziabile. I nostri sensi hanno bisogno di stimoli sempre più intensi per appagarsi e nel loro uso continuo si logorano, perdono la loro sensibilità, si fanno sempre più avidi, sempre più ciechi nelle loro pretese e nelle loro connessioni. Lungo questa strada lo sviluppo si risolve in un ritorno alla spontanea ferocia della belva nel procurarsi il cibo, o, in termini più attuali, ad una tecnologia che si compiace del suo potere distruttivo. In questo progressivo decadimento la coscienza smarrisce la sua natura per divenire solo strumento per una maggior ferocia. E’ l’inevitabile decadenza di tutto ciò che è pesante, grezzo, oscuro. Ci si può anche compiacere di questo risultato. L’ego si sente gratificato e potente nel creare  nell’unico modo che conosce: nel distruggere.

 Nel vedersi risucchiati in questo vortice la consapevolezza potrebbe avvertire sulla propria pelle la perdita di qualcosa. La sua ascesa richiede lo sforzo di muoversi in senso antigravitazionale, di ritrovare la fiducia che ci può essere un modo “diverso” di convivere con l’altro. E’ un impegno individuale eppure può trovare alimento da altrettante piccole sorgenti che mantengono o celano nel segreto del loro animo lo stesso struggente anelito. Forse anche altri contagiati da questi sommovimenti, potranno svegliare la propria coscienza. Ecco allora che dall’oscurità, l’anelito alla luce potrà incoraggiare atteggiamenti diversi nelle relazioni reciproche, atteggiamenti diversi nei confronti di una natura che ci richiama con le sue proprie energie che è giunto il momento di assumere un nuovo ruolo nei suoi confronti. Emerge la necessità di educare il proprio cuore nel cogliere ed apprezzare queste scintille di luce, di sattva. Basta solo una piccola conversione per tornare a disegnare sul viso quel sorriso fiducioso, quella gioia condivisa nel segreto dell’animo, quella gioia capace di sentire ancora il peso di ciò che sta lasciando, ma che ormai sa quale strada seguire. Allora mudita può divenire quell’isola vivente capace di crescere, di trovare altre isole, di dar vita ad un nuovo continente. Le sue radici saranno sempre nella sofferenza di un vivere cieco e ostinato. Tra le potenti calamite del bene ed del male ci sono io, c’è il mio io, che può essere attratto da questa o da quella, occorre conoscere queste forze attrattive e quale regalo esse possono offrire alla coscienza dell’uomo.

 

 

I sensi in azione

I nostri sensi sono il primo campo in cui fare esperienza ed esercitare mudita, la gioia condivisa. Ancor prima che con le persone questa attitudine è già all’opera nel semplice attimo in cui i nostri sensi “accarezzano” il proprio oggetto. Nello sguardo, per esempio, vediamo all’opera l’atteggiamento possessivo ed egocentrico che vede nell’oggetto qualcosa di “mio”, con tutte le conseguenze che abbiamo visto, quelle di volerlo catturare, la “pretesa” di averlo (o di rifiutarlo – non dimentichiamo l’aspetto speculare che è ugualmente rilevante). Altrettanto forti sono le tendenze opposte, quelle di cogliere l’originalità di ogni oggetto percepito, di contemplarlo, di sapergli dare quella felicità che tu stesso desideri o di alleggerirlo da uno sguardo invidioso.

Ecco allora che per esempio in quel piatto che abbiamo davanti a tavola vi si possono vedere tante cose al di là del bisogno di saziare il corpo. In quanti modi già solo guardare quel piatto può crear danno o può appagare, può esser fonte di avidità o di pace. Già nell’occhio vi è l’attitudine a ferire o ad accarezzare la vita con la sua delicatezza. La differenza tra questi estremi risiede nella presenza in essi, meno o più intensa, della consapevolezza. Questa potenzialità è fuoco che si può spegnere o accendere, che può essere solo il fumo di sterpi bagnate, o l’ardere di una foresta incendiata da quella cicca gettata distrattamente a terra o quella nitida luce cui si siede attorno per parlare di sé.

 

A chi si rivolge

La pratica della gioia condivisa, di mudita, è una virtù cui educarsi. Già abbiamo accennato come essa possa lasciare il passo all’indifferenza o al graffio o alla carezza. Educare la nostra consapevolezza, il nostro occhio, il nostro orecchio e così via a saper “toccare” l’altro. E’ bene iniziare questa scuola dagli oggetti immobili. Sono lì, il mio occhio li guarda, la mia mano li può gettar via oppure li può toccare con cura, la consapevolezza cresce e mudita si fa più sensibile e quell’oggetto, anche se è da buttare, non per questo passa tra le mani senza la carezza di uno sguardo, il tocco di una mano. Poi la nostra carezza si volge a noi stessi, alle proprie incapacità, alle nostre frustrazioni, alle aspirazioni eccessive prive di quell’energia capace di realizzarle, al dolore nel mio corpo, alla mia salute. Tutto può essere conosciuto e accolto dalla carezza gentile della consapevolezza, dall’accoglienza, da un “mio” rispettoso del “tuo”. Possono sfuggire alla sua leggerezza gli esseri viventi, gli spazi più lontani? Sì lo possono, come tanti e tanti altri oggetti lo possono fare semplicemente perché è ancora una virtù timida e incerta. Con la sua pratica, con  il suo esercizio nulla le può sfuggire.

 Mudita  è un seme che cresce, nessuno ne conosce le vie, nessuno ne conosce il dove e il quando, chi allora potrà farlo prigioniero?

 a cura di Rodolfo Savini

Foto in evidenza tratta da http://www.amazzonievalchirie.it

 

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