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Trimle apr – giu 2003 n° 2 Anno V

  • La percezione della Realtà ( Antonio Caso )
  • Di Caos e di Ordine (Gemma Donati )
  • Superare il dolore, soprattutto quello inutile . . .  ( Rodolfo Salvini )
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  • La percezione della Realtà

    di Antonio Caso

    Istintivamente è facile dire ciò che è reale. Reale, viene spontaneo, è ciò che esiste, quindi che ha vita, ma anche quello che non è vivo come noi usualmente intendiamo, ma comunque ha un’identità oggettiva come ad esempio una pietra, un pezzo di metallo, una conchiglia. Meno facile è connotare come reale il mondo immateriale, virtuale – cioè quello che i nostri sensi non possono percepire – che si cela dentro di noi, e cioè la trasmutazione soggettiva, spesso illusoria, delle influenze e condizionamenti che l’ambiente familiare, di relazione, educativo, culturale hanno contribuito a formare. Eppure questa realtà c’è, e ci condiziona pesantemente, perché costituisce la lente deformata con cui entriamo più o meno in empatia con l’altro da noi, e che spesso, anzi quasi sempre, neanche riusciamo a penetrare più a fondo dando origine al senso di vuoto e insoddisfazione che tanto tormenta l’uomo di oggi. Da questa premessa, si capisce che l’uomo che non si conosce, non si ascolta, non si ferma, annichilito com’è dalla velocità della vita di oggi, molto difficilmente percepirà correttamente ciò che lo circonda, finendo per chiudersi sempre di più all’interno del proprio inconoscibile, anche a se stesso, spazio emotivo. A questo si aggiunga l’inarrestabile ascesa della cosiddetta realtà virtuale, dove la tecnologia del finto, dell’apparente ha ora un posto così importante nella nostra vita quotidiana da far sì che possiamo tranquillamente dividere la nostra giornata in una occupazione reale, dove siamo in gioco e in relazione con l’ambiente che ci circonda, e un’altra – che possiamo chiamare interattiva – con uno strumento tecnologico che ci può far entrare in una dimensione che non c’è e che oggettivamente non può esistere. Dobbiamo capire che questa situazione è stata ed è, per una gran parte dell’umanità presente, tot

    almente sconosciuta e che pone di per sé alcuni interrogativi, ad esempio il primo è: questo uscire dalla possibilità di percezione del reale, del concreto può portare ad una svalorizzazione e/o ad una negazione di ciò che invece ci succede a computer spento? Si dirà che questo dipende sempre da chi usa il mezzo, dall’ambiente familiare, dalla scuola, ecc, ecc. Tutto questo è condivisibile, ma a mio avviso, quello che invece è comunque dannoso, in modo più o meno appariscente, è che computer-utente, tele-utente “prendano rifugio”, cioè sfuggano da se stessi, sempre più spesso e per sempre più tempo, in un “luogo-altro”, non riconducibile al loro mondo, alla loro mente. L’obiezione è che anche scrivere, leggere, volare è qualcosa che fa distrarre, che porta lontano, ma con una importante differenza, e cioè che il contesto, la dimensione, seppur di fantasia o da sogno, rimane il mondo in cui viviamo. Ho l’impressione che invece la possibilità – temporanea ma sempre più frequente – di immersione nel virtuale, nell’inconscio, sollecitando tuttavia delle risposte percettive reali, porti sempre più alcuni soggetti predisposti all’estraniazione, all’alienazione dal proprio nucleo e dall’ambiente che li circonda, rendendo ancora più critico il ritorno alla dimensione “terrestre” fatta come noi tutti sappiamo, anche di sofferenza, noia, dolore. L’antica e immortale saggezza del Buddha ci guida con l’ “Ottuplice sentiero”(la Quarta Nobile Verità del suo insegnamento), a prendere rifugio in noi stessi, perché – come è scritto nel Dhammapada – chi è distratto è quasi sempre come se fosse morto, perché, a ben pensarci, chi e cosa esiste fuori della nostra attenta percezione? Come possiamo avvertire che siamo vivi, in questo mondo, adesso, se ne siamo, con la mente, sempre più spesso fuori? Cerchiamo di capire allora che la consapevolezza è la sola arma che possiamo usare contro il nulla, la sola possibilità che àncora la mente al mondo delle cose e delle persone che amiamo, e il cui amore vorremmo ampliare, dilatare immensamente per vivere in un contesto di veri uomini in pace vera.

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  • Di Caos e di Ordine 

    di Gemma Donati (dedicato ad Antonia)

    All’apparenza sembra il caos, la fine di tutto, il ritorno alla zuppa cosmica prima della creazione del mondo e forse lo è: da noi in Occidente le chiese cristiane sono sempre più vuote, i conventi una volta per centinaia di monaci oggi ospitano non più di quattro o cinque – a volte tre – religiosi e spesso sono trasformati per quello che ormai viene definito “turismo spirituale”. Persino nella mistica Umbria.. Ho davanti a me un giornale perugino che porta una lunga lista di questi alberghi “francescani” lodando la bontà del cibo fornito dai frati come attrazione fondamentale.

    È normale quando si incontra qualcuno per la prima volta sentirsi porre la domanda: “E tu di che religione sei?” No comment.

    Però, sempre per quella famosa e ineluttabile Legge dell’Interdipendenza, se una religione è in trasformazione anche le altre devono in qualche modo mutare. Sono appena tornata dall’India: i giornali indiani parlavano estensivamente del fatto che le agenzie turistiche occidentali – non ricordo bene di quale Occidente – hanno cominciato a vendere pacchetti turistici “tutto-compreso”, che in questo “tutto” includono anche un matrimonio all’indù. La cosa sembra funzionare.

    Occidentali che oggi vogliono un matrimonio “un poco diverso dal solito” possono sposarsi in India con tutto il parafernalia connesso: lei naturalmente in sahari, lui con una pesante collana di fiori di arancio al collo, il tempio con fuoco acceso, i tre giri intorno al fuoco, i polsi degli sposi legati da un unico filo rosso, il bramino che li benedice in sanscrito che nessuno capisce come nessuno capiva il nostro latino, fronte e capelli tinti di rosso, nubi d’incenso, bajans, riso sparso e offerte.

    Vale questo rito per chi indù non è? Per chi, ben lontano dalla severa castità degli sposi che ancora in India non si guardano nemmeno negli occhi fino al tutto compiuto, convive ormai da anni e non appartiene a casta alcuna?

    Appunto, il caos. Il crollo se non proprio di tutto, certamente della serietà dei riti, della distinzione tra Sacro e profano, tra iniziazione e spettacolo.

    E però … sono ottimista, non ostante tutto. Come sempre. È mia profonda convinzione che prima ci fu il caos e solo dopo venne l’ordine, che quando Dio creò la luce la creò dalle tenebre e che se vogliamo ricreare dentro di noi l’atto originario della creazione – qualsiasi essa sia – dal caos e dalle tenebre dobbiamo di nuovo partire.

    Vedo molte cose oltre al vuoto dei conventi cattolici e al crollo dei riti indù. Perché questo è un ritorno all’origine, all’origini di tutto.

    Non ostante quello che è stato definito un “supermercato spirituale”, non ostante l’evidente superficialità dei nostri tempi, la lampante pseudo-religiosità e il “misticismo fai da te”, per non parlare dell’ “instant Illuminazione” e forse proprio grazie a tutte quelle cose, qualcosa di immensamente grande e luminoso si fa’ strada nell’umanità.

    Lo Spirito del nostro tempo non è più sperimentato nei termini convenzionali cui molti di noi – compresa io stessa – siamo stati educati e siamo cresciuti. Non ci è più trasmesso e comunicato, se non addirittura imposto da dottrine e sentimenti tradizionali. L’esperienza dello Spirito oggi si fa’ strada come qualcosa che infrange le regole dottrinali in una ricerca holistica del tutto, più che di una particolare perfezione.

    Gli sposi occidentali che si sono uniti in un tempio indù forse non lo sanno nemmeno loro, non se ne sono resi conto come forse non se ne rendono conto i religiosi e le religiose che hanno abbandonato i molti monasteri cattolici, ma essi fanno parte di un movimento molto più vasto di loro, dei loro atti, delle loro scelte magari sconsiderate, magari alla moda, magari incomprese …

    È l’ineluttabile movimento di un’umanità che è stanca di regole imposte, di riti non più sentiti e forse nemmeno compresi da tempo, di gerarchie superate, di frasi fatte e di concetti ribolliti, di tradizioni ripetitive incapaci di comunicare ormai entusiasmo e freschezza.

    La gente ha disperatamente bisogno di stimoli nuovi e se li va a cercare magari nell’antica India! Anche questo dopo tutto è un evidente tentativo di rinnovamento.

    Ricordo quando anni fa’, facendo il Cammino di Santiago capitai in un antico convento della Castiglia, ormai trasformato dai frati in albergo a Quattro Stelle. In quella che era stata la Sala del Capitolo era stato ricavato un ristorante gran lusso, chiamato Ristorante del Vescovo.

    Nel centro torreggiava un enorme self-service a piramide, colmo di ogni ben di Dio, sovrastato in alto dalla cosa più preziosa del convento: una Bibbia miniata del XIII secolo. Al muro scintillava il bastone pastorale del Vescovo anch’esso appartenente a secoli antichi, dritto su una fila di Moe Chandon.

    Personalmente non mi sento di condannare né gli sposi occidentali che hanno scelto un rito indù senza essere indù, né i frati castigliani che hanno fatto discendere il Sacro sul tavolo degli antipasti.

    Aspetto con ottimismo e incrollabile fiducia nelle capacità evolutive del genere umano di vedere l’ordine sorgere dal caos, la luce dalle tenebre. Di vedere nascere dalla decostruzione della nostra religione e di tutte le altre, una spiritualità forse ancora sconosciuta e inimmaginabile, basata su un’esperienza radicalmente diversa ma illuminante del Divino.

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  • Superare il dolore, soprattutto quello inutile

    Tavola rotonda all’Ospedale S. Donato di Arezzo

    il 13 aprile 03 per riflettere tra religioni e culture

    a cura di Rodolfo Savini

    Il titolo dell’incontro promosso dai medici dell’Usl 8 di Arezzo e dell’Ospedale S. Donato è stato molto impegnativo: il “dolore inutile”. Intorno a questo tema si è svolta la Tavola rotonda, aperta non solo al personale che più direttamente si confronta e si scontra con il disagio e la sofferenza di chi ha perso la salute, ma anche alle religioni e alla cultura laica in una prospettiva che ha dilatato il problema ad una dimensione diversa, che aiuta a porre domande sulle quali spesso si sorvola, presi come siamo dall’esigenza di una cura immediata.

    Il Sindaco di Arezzo, l’ing. Lucherini, ha sottolineato i diversi aspetti che può assumere il dolore, da quello fisico a quello psichico ma ancor più difficile è coglierne le cause, che si annidano spesso in questioni sociali irrisolte. L’incontro, che si è svolto in Ospedale, ci ha posto direttamente al cospetto di una esigenza particolare, quella di un Ospedale che affronti la sofferenza del malato, senza amplificarla per trascuratezza, né con terapie inadeguate, né con cure non idonee.

    La dott.ssa Mattesini, Assessore all’Istruzione della Provincia, ha constatato come il dolore sia drammaticamente parte della vita e come i giovani siano incapaci ad affrontarlo scivolando verso facili “fughe”. Il dolore inutile può scaturire anche da un Ospedale che ha difficoltà ad assistere il malato una volta dimesso e reintrodotto a casa senza un adeguato supporto offerto a lui e ai suoi familiari.

    Il dott. Burbi, Direttore Sanitario dell’Ausl 8, ha ricordato la necessità di continuare a vedere nel malato sempre un cittadino che momentaneamente ha perso la sua condizione di salute. Il dolore da un lato è utile, se non ci fosse non saremmo indotti ad andare dal medico e a farci curare, le malattie più insidiose sono infatti quelle che non danno sintomi. Da un altro lato occorre aiutare il paziente a superare quel dolore che può essere vinto, soprattutto al cospetto di quelle malattie incurabili fonte di grandi sofferenze.

    Il Direttore del Presidio Ospedaliero di Arezzo, il dott. Gialli, ha anche lui ricordato come gli Ospedali della Toscana abbiano avviato una “rete per la promozione della salute”. Il dolore non va nascosto, ma va reso meno “inutile” sia coltivando, da parte degli operatori, una maggior sensibilità verso i malati, sia rivolgendo più attenzione alla qualità delle terapie, sia ricercando farmaci più idonei.

    Il dott. Fineschi, Presidente del Comitato Etico dell’Ausl 8, ha svolto una riflessione sul termine stesso di “malato”, che è sì un cittadino, ma un cittadino in svantaggio per la sua salute momentaneamente in crisi. Può anche essere visto come un utente e in tal caso l’Ospedale sarebbe un erogatore di servizi, ma tra “paziente” e medico prevale sempre una relazionalità asimmetrica che non pone i due soggetti sullo stesso piano.

    L’Ausl 8 e l’Ospedale S. Donato hanno avvertito l’esigenza di spingersi verso una dimensione multiculturale della cura. La “terapia” si apre così indubbiamente ad una serie di prospettive differenti, locali, regionali, etiche, culturali e transculturali. Dal dolore come sintomo da curare ci si è immersi così verso un dolore che si presenta come una sfida quotidiana: il problema “salute” apre domande più radicali che le religioni e le culture si sono poste con più immediatezza. Questo il senso del tema proposto. Sono così intervenuti esponenti di diverse religioni o della cultura laica.

    Don Liberatori, che opera da dodici anni nel carcere di Arezzo, si è accorto di come il detenuto sia sempre una “persona”, un “essere sacro”. Dapprima era animato da un senso di commiserazione nei confronti delle sofferenze del detenuto, ma questi non cercava commiserazione; allora si è reso conto dell’importanza di entrare in simpatia profonda con lui. Imparare a sollecitare nel detenuto non la domanda “perché proprio a me?” ma ad abituarlo a vedere, nell’esperienza in corso, una sfida, uno stimolo a trasformare la propria condizione in una rinnovata visione dei propri interessi, delle proprie scelte, del proprio tempo. Il dolore non è un castigo di Dio, un’espiazione attraverso cui passare, non è che “più soffriamo qui, più gioiremo nell’al di là”. Il Regno è qui e la sofferenza è un’opportunità, si tratta di affrontare le zone d’ombra del nostro passato e del nostro presente per trasformale in una sfida per crescere. Questo riesce nella misura in cui il detenuto non amplifica il proprio dolore con rancore e ulteriore odio, nella misura in cui si accorge che questi stati d’animo scaturiscono da dentro, dal proprio intimo ed è lì che hanno bisogno di essere disciolti e purificati. La compassione non diviene quindi un compatire ma un apprendere a “vibrare insieme” imparando a valorizzare tutto, anche la gramigna, per crescere verso il bene.

    Il Rabbino Caro ha ricordato che nell’ebraismo vi è una stretta identificazione tra dolore fisico e dolore psicologico. Sul problema del dolore la tradizione ebraica ha sviluppato articolate riflessioni nel Talmud. Qui si legge che l’uomo deve apprendere a ringraziare Dio per tutto, sia per il bene che per il male, non perché l’uomo ricerchi il dolore, bensì lo teme ma la preghiera, recitata per esempio dal malato e dai suoi parenti, lo aiuta a attenuarne il peso. La sofferenza è parte dell’esistenza. Nella creazione originaria non c’era il male. Giacobbe chiese a Dio di dargli delle malattie per indurre i propri figli a venire a fargli visita. Nei confronti della malattia l’ebreo non ricorre a miracoli, si avvale della scienza medica, ha l’impegno di preservarsi nello stato di salute curandosi debitamente. Sia il paziente che il medico si devono rendere conto che la guarigione dipende da Dio. Il medico deve evitare sperimentalismi, si deve ricordare della drammaticità della malattie che pongono medico e paziente sull’orlo di un abisso in cui potrebbero precipitare. Nei seicentotredici precetti che regolano la vita dell’ebreo vi sono norme particolari per il malato, che può sospendere l’attuazione di alcuni di tali precetti. Per i suoi parenti e amici vi sono invece particolari impegni come quello di fargli visita, dandogli sostegno fisico e morale, senza interferire con le terapie e rispettando il malato. Evitare di visitarlo nei primi tre giorni di malattia, né nelle prime tre ore del giorno così come nelle tre ore che precedono la sera. Nel Talmud si legge che così come Dio è vicino a chi soffre, così l’uomo sostiene il malato, da tutti i punti di vista, anche economici. Chi fa visita ad un malato gli sottrae parte della sua malattia e contribuisce a farlo guarire. Anche nei confronti del medico si trovano norme che vietano al medico di informare in modo esplicito il malato di una sua malattia incurabile. Alcuni sintomi rivelano l’avvio di un processo di guarigione e tra questi, p.es., lo starnuto, l’eiaculazione, il sogno, il sonno.

    Il dott. Jamil, per la tradizione islamica ha ricordato l’importanza che la medicina islamica rivestiva in passato: Avicenna, per esempio, era rinomato proprio come medico già all’inizio dell’XI secolo. Ha ricordato il dramma della città di Kerbala, bombardata proprio in questi giorni durante la guerra contro l’Iraq. Già nella seconda metà del VII secolo la città sacra dell’Islam era stata provata da un grande dolore perché la famiglia di Maometto, con a capo il nipote Husayn discendente del califfo Alì (genero di Maometto), era stata decimata dagli Omayyadi, dando vita alla tensione tra sciiti e sunniti. Ancora oggi, durante la guerra che lacera quelle regioni, Kerbala ha subito una ulteriore profanazione, suscitando così, nella tradizione islamica, un rinnovato dolore. Il dott. Jamil ha ricordato, nella sua esperienza islamica indiana, il ricorso ad altri tipi di cura, come alla medicina ayurvedica. Un problema è dato anche dal dolore “psicologico” e “sociale”, spesso l’immigrato è considerato un “malato”, un “non integrato” nel contesto sociale. Il sentirsi chiamare ripetutamente “extra-comunitario” induce un profondo senso di disagio e dolore. Un suo giovane amico una volta per reazione si è rivolto a chi lo chiamava così dicendoli che era un “extra-afghano”.

    Il dott. Nkafu, esponente della tradizione africana, ha ricordato che la sofferenza riguarda il singolo e la comunità al tempo stesso ed è espressione della condizione umana. Solo Dio infatti non soffre. Il dolore non ha un connotato che esprima una condizione metafisica, esistono solo persone che ridono, piangono e muoiono, è un’esperienza che si vive direttamente nella comunità e nel gruppo familiare di cui si fa parte. La mia salute è anche la salute degli altri. Il malato, soprattutto l’anziano p.es., non vive in Ospedale o in ospizio, ma nella famiglia. Il malato testimonia agli altri membri una dimensione cui neanche gli altri saranno estranei. La causa della malattia è spesso ravvisata in un segno di lacerazione e di rottura nel legame con gli antenati e con Dio; questo equilibrio spezzato deve essere reintegrato. La morte è dentro la vita, è parte della vita. All’interno della comunità ci sono momenti centrali come la nascita, la malattia e la morte. La prima è un momento di festa, si canta alla nuova vita. La morte è il momento centrale: è quello in cui il malato può diventare immortale. In tal modo la morte non è temuta nella misura in cui la persona scomparsa diviene, nel ricordo comunitario, immortale. Il malato viene visitato da tutta la comunità per ricreare quel rapporto con gli antenati che si è rotto. Un detto dice che un sorriso dato ad un malato è già una medicina. In caso di malattia spesso si ricorre ad una medicina che oggi chiameremo olistica, a base cioè di infusi e di erbe. La malattia è un richiamo della comunità alla vita nella sua interezza, è ricreare quel legame che fa sentire tutti figli della vita stessa. Il problema non è quindi il morire, ma il morire nel ricordo della comunità. Nessuno quindi soffre in privato. La cura degli altri accompagna il neonato alla vita e la cura degli altri lo accompagna, con la morte, verso la condizione immortale di antenato. La celebrazione della vita è connessa alla celebrazione della morte.

    L’esponente de La Pagoda, Rodolfo Savini, si è soffermato sulla rilevanza del dolore nell’esperienza buddista, ma su questa relazione torneremo nel prossimo numero del Trimestrale.

    Il prof. Roberto Salvadori ha presentato il problema dal punto di vista laico. Ha sottolineato come sia impossibile sintetizzare un’ottica laica, di fatto esistano diverse prospettive. La sua è una di queste. La caratteristica di fondo è che, nel panorama laico, non c’è una verità che pretenda di assurgere a principio universale. Il dolore è lo scandalo per eccellenza. La sua presenza esclude la possibilità che esista un Dio. Primo Levi denunciava il fatto di come, dopo Auschwitz, sia impossibile affermare la presenza di Dio e verrebbe allora di parlare del “silenzio di Dio”, riavvicinandosi così all’esperienza di Giobbe circa il dolore dell’innocente. La religione mira a redimere l’uomo dal dolore, mentre la mentalità laica vuole comprenderne le cause e combatterlo. Già Pio XII nel 1957 si poneva la domanda di un possibile ricorso a narcotici pur di attenuare il dolore. Anche oggi in Ospedale si sente parlare sempre di più di una terapia antidolorifica. Il problema si connette strettamente alla questione ancora irrisolta dell’eutanasia. Da questo punto di vista sarà necessario sviluppare, in questa direzione, corsi di aggiornamento sulle modalità atte a superare il “dolore inutile” sia tra i malati, affinchè apprendano a curarsi, sia tra gli operatori sanitari e i ricercatori affinché individuino terapie e sostanze idonee ad attenuare il dolore.

    A questo punto il dibattito ha coinvolto il pubblico e da qui sono scaturite alcune riflessioni. C’è chi è intervenuto sottolineando come in certi momenti della Prima guerra mondiale tra i soldati degli opposti schieramenti si fosse creata, proprio a causa del dramma umano cui la guerra conduceva, una intima e inaspettata solidarietà che faceva superare la condizione di nemico. In questa prospettiva si può aprire un nuovo sguardo interpersonale che avvicini gli uomini tra loro. Un altro intervento ha sottolineato come certe culture, basti pensare ad alcune popolazioni africane, siano estranee all’esperienza agghiacciante di Auschwitz che, più che essere attribuita al silenzio di Dio, può essere ascritta alla violenza che alberga nell’animo umano. Un’altra riflessione ha messo in risalto che spesso noi conosciamo solo il “nostro” dolore e difficilmente riusciamo ad entrare in sintonia con l’altrui sofferenza, da qui la necessità di vivere con immediatezza il postulato “tu soffri come me, io soffro come te”. Un’altra questione ha riaperto il caso del dolore cronico in cui il paziente va aiutato a gestire la propria sofferenza. In questo senso si è riaperta la questione dell’eutanasia. Per i Testimoni di Geova un intervento ha posto in risalto due condizioni estreme. In Genesi l’uomo viene condannato a lavorare con dolore, mentre nell’Apocalisse-Rivelazione viene detto che non ci sarà più sofferenza. Tra queste due condizioni estreme c’è il significato profondo che accompagna la speranza dell’uomo nella promessa di Dio.

    Abbiamo pensato di riportare per esteso queste riflessioni poiché, nel pensiero buddhista, il dolore costituisce la Prima Nobile Verità e ci sembra estremamente importante che intorno a questo tema si apra un confronto che permetta di cogliere dimensioni plurali di questa condizione, affinché si possano individuare con più partecipazione le sue cause e i suoi effetti, nonché la sua stessa natura. Nel prossimo numero ci soffermeremo sull’intervento da parte buddhista, ma sollecitiamo chi si troverà tra le mani questo opuscolo, a contribuire con le proprie riflessioni e le proprie esperienze (inviandole per scritto alla sede de La Pagoda o con e-mail al sito internet) a gettar luce su questo morso che priva l’uomo della serenità necessario per abbracciare la vita con gioia partecipe.

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