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Trimle apr – giu 2004 n° 2 Anno VI

 
 
Incontrarsi 

lettera di un’Amica della Pagoda

  Carissimi,

sono qui per scrivervi ed esprimervi le emozioni provate attraverso la lettura dell’articolo sull’amicizia nell’opuscolo precedente.

Trovo la scrittura il mezzo più veloce per arrivare dritti nel cuore … chiaramente nel cuore di chi ancora crede nei valori importanti della vita, amicizia inclusa, il tema sul quale voglio soffermarmi, insieme a voi.

Nel cuore di chi è ancora sensibile, di chi trova il tempo di saper ascoltare e non solo parlare, di chi riflette se ha fatto abbastanza, di chi si guarda nella propria coscienza e si chiede se ha abbastanza dato.

Quella lettera sull’amicizia, che avete pubblicato, è stata un po’ come … riflettermi in uno specchio,  rivedermi ed essere qui a condividerne con voi il senso.

Non a caso ho scelto di fare il lavoro che attualmente svolgo, proprio per coltivare quel rapporto umano che nasce dall’aiutare gli altri a risolvere i problemi cui la vita ci mette davanti. Molte persone, inaspettatamente, ritornano da me, si rivolgono a me perché credo abbiano trovato nel mio essere il loro essere. Nessun fine o interesse. La semplice energia positiva che si scambia solo se si è predisposti a farlo.

Le mie esperienze negative del passato, legate in particolar modo al lavoro, hanno determinato la crescita della mia forza interiore, attraverso la quale sono riuscita a migliorarmi, ad essere quella che oggi sono. Malgrado i segni che porto ancora dentro, sento però di dire che ogni cosa capita non a caso e che comunque ti aiuta a crescere. È sulla base di questo, che è già un buon punto di partenza, che si può comprendere più distintamente la causa di ciò che accade.

Ma ho dovuto lavorare tanto sulla mia persona, prima di arrivare a capire questa dinamica e a comunicarvela. Mi sono mossa attraversano tre fasi: una d’isolamento fisico-spirituale (corpo-mente), un’altra di meditazione e un’altra ancora di reintegrazione.

L’isolamento fisico si è espresso nella ricerca di un luogo adatto, che mi potesse ispirare tranquillità e questo l’ho trovato nel “mio”  parco non troppo lontano da casa. L’isolamento spirituale è stato alimentato dall’ascolto interiore favorito dalla musica New Age, la mia preferita. La meditazione è stata per me un’esperienza “assoluta” di cui preferirei parlare in un’altra occasione. La reintegrazione nel gruppo di amici e conoscenti è stata più facile, perché, rigenerata nel corpo e nello spirito e carica di energia nuova, sono stata in grado di spiegare il motivo della mia assenza, parlandone semplicemente e dicendo loro che da me non troveranno mai energia negativa, ansia e motivi di tensione … Questa la … dimensione di un’esperienza, vissuta dapprima da sola e poi con gli altri e che ora vorrei che diventasse anche vostra.

Qui mi sovviene una citazione che diceva più o meno così: “l’amore vero, quel che tutto ti fa fare, arriva dall’anima” … oppure un’altra che dice: “quando non riesci a leggere nell’anima di qualcuno, prima va via e poi ritorna”.

È un immenso piacere aver ritrovato tra voi lo spazio dell’amicizia e spero possa, crescendo, dare i suoi frutti.

A presto.

 

 

Il Dolore di Meditazione 

di Ludovico Petroni

 

In che cosa consista una sensazione fisica dolorosa, scevra da tutti i “nostri annessi e connessi”, percepita nella sua più essenziale nudità e disseccata dalla proliferazione emotiva-mentale che l’avvolge, è di per sè esperienza di meditazione, oggetto di concentrazione spesso lasciata alla casuale crescita del meditante, altre volte deliberato insegnamento mirato, come nel caso dei ritiri condotti da Steve e Rosemary Weissman, che la sera del quinto giorno del ritiro programmato per principianti danno dettagliate istruzioni su come “trattare” le “sensazioni fisiche spiacevoli”.

Innanzi tutto viene premesso l’uso di quest’ultima terminologia, invece dell’uso di “pain”= dolore, in quanto che la parola stessa già evoca un moto avversivo, quindi l’atmosfera viene costantemente alleggerita durante il discorso in cui vengono toccate fasi di schietta ilarità.

  • Incontrarsi da una amica della pagoda
  • Il dolore di meditazione di Ludovico Petroni
  • Vesak  a La Pagoda – 30 maggio  di Marta Saralegui
  • Ricordi di scuola, verità di oggi: autoritarismo,  autorità e autorevolezza  di Rodolfo Savini
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    Gli studenti vengono spesso tranquillizzati. Non si vuole che essi si mostrino super-uomini o super-donne, e soprattutto non si vuole che gli studenti giungano a generare avversione nei confronti della sensazione fisica spiacevole che decidessero di contemplare, invece di cambiare posizione come precedentemente erano istruiti a fare, cosa che rimangono comunque liberi di fare in qualunque momento. Quindi diviene importante saper distinguere tra due tipi  di “sensazione fisica spiacevole” (SFS). Distinguere cioè tra un reale dolore fisico causato da una malattia, una disfunzione o un incidente e quello che si chiama “dolore di meditazione” (DdM), che emerge quando si comincia ad aver sviluppato un certo livello di concentrazione e consapevolezza del corpo momento per momento. Questi dolori possono sorgere ovunque, ma più spesso nelle ginocchia, caviglie, schiena, collo e sono distinguibili dai primi (dolori reali) in quanto che cessano completamente col cambiare della posizione, mentre invece un dolore reale resta.

    Mentre è possibile lavorare con un dolore di meditazione, un dolore reale deve essere trattato e rispettato come tale.

    Quando quindi si è accertato che una SFS sorta è effettivamente un DdM, si può provare a tornare al primario oggetto di meditazione, che sarà ad esempio il respiro. Quindi un DdM attrarrà nuovamente la vostra attenzione e ancora tornerete al respiro. Questo per un po’ di volte, fino a che l’avversione per un DdM sorgerà nella mente. A questo punto potete cambiare posizione, se volete. Altrimenti, potete provare a cambiare oggetto di meditazione e a focalizzare l’attenzione sulla SFS stessa, mirandone al centro. Se la SFS è più di una, scegliete la principale o le principali con una mente aperta ed interessata. Che cos’è questa cosa che chiamo dolore? E’ nella mente o nel corpo, dov’è esattamente, com’è esattamente? E’ penetrante, è pulsante, è fredda o calda, si dirama, è pulsante, si sposta, si divide, sparisce, rispunta altrove (è interessante!). Dopo un po’ di tempo ne avrete abbastanza, si sta sviluppando avversione e veramente volete cambiare posizione. Potete farlo, ma, se volete, c’è ancora qualche altra cosa da provare: guardare come l’atteggiamento mentale di avversione alla SFS influenzi altre parti del corpo. Magari avete irrigidito le gambe, o avete contratto una spalla, o avete serrato un pugno con tutta la muscolatura dell’avambraccio interessata, o avete serrato le mascelle,  o aggrottato la fronte. Tutte le volte che scoprite qualcosa,  viene impulsivo  rilassare la parte immediatamente. Ma aspettate un po’, osservate un attimo in che consiste questa contrazione, questa tensione.

    Del resto, per conoscere la libertà dall’assillo, l’assillo deve essere esperito. Per riconoscere la leggerezza, la pesantezza deve essere assaporata. Per ripulire ci si sporca le mani.

    Ora potete rilassare la parte contratta. E così facendo, si amplifica la ristrettezza dei propri limiti di compulsività, imparando i legami sottili d’influenza tra il corpo e la mente.

    Dopo un po’ che osservate la SFS in questa maniera, veramente non ne potete più, quel che è troppo è troppo, ora basta, volete cambiare posizione. Ma aspettate un attimo, provate appena a tornare al respiro per vedere se  il DdM è ancora lì e se veramente è il caso di muoversi. Solo per 5 minuti, no troppo, solo 2 minuti … Va bene, 10 respiri. Contate 10 respiri e vedete se veramente volete cambiare.

    E può darsi anche che non lo facciate più. Comunque, se lo volete fare, prima di farlo (questo è importante) dite, dentro di voi, che veramente avete fatto quanto di meglio è stato possibile in questo momento e che, invece di sviluppare avversione, decidete che è opportuno cambiare posizione ( per un buon rapporto di equilibrata fiducia in se stessi).

    Quindi cambiate posizione lentamente, con consapevolezza, osservando lo svanire della SFS che vi ha dato tanto e che un giorno potreste accogliere come un vecchio amico. La SFS potrebbe divenire solo la spia che vi indica che siete di nuovo sulla vecchia strada di casa del vostro raccoglimento e potrebbe rimanere la denominazione “spiacevole” solo nell’etichetta. Imparare a confrontarsi con il DdM ci aiuterà ad accogliere  pazientemente anche un reale dolore fisico od una  condizione mentale spiacevole con una mente più calma ed equanime.

     

    Vesak  a La Pagoda – 30 maggio  

    di Marta Saralegui

     

    Ricordo il primo Vesak, eravamo in pochi, fu molto semplice e si svolse di pomeriggio senza il pranzo. Faceva un po’ di freddo e siamo rimasti ne La Pagoda fino a tardi con il ven. Tae Hye che ci ha guidato nella meditazione e nel rituale.

    Tutto aveva un aspetto di forte introspezione e, direi, quasi magico, infatti due nostri amici presenti a quella cerimonia sono poi diventati monaci.

    C’era qualcosa nell’aria che ci accomunava, forse il desiderio dell’Illuminazione, forse l’aspirazione a raggiungere la buddhità.

    Oggi, a distanza di tanti anni e di tante cose nel frattempo successe nella vita di ognuno di noi, quest’aspirazione continua nonostante la coscienza delle nostre difficoltà e dei nostri limiti. Ringrazio le guide spirituali che ho conosciuto perchè ognuna, con i suoi insegnamenti, pur nella diversità delle proprie tradizioni, mi ha regalato una parte dell’amore e della saggezza nel Dharma. La Luna piena accompagnò Sakyamuni quando giunse all’Illuminazione, Luna piena che oggi continua a rappresentare un giorno di festa per la comunità Buddhista diffusa nel mondo.  L’Associazione Buddhista de La Pagoda si riunirà anche questo anno, domenica 30 maggio, alla presenza del Ven.Tae Hye, monaco della tradizione Mahayana coreana e del Ven. Nandasiri, monaco della tradizione Theravada dello Sri Lanka. Saranno loro che guideranno la pratica. Il festeggiamento inizierà intorno alle 11.00 con l’offerta di cibo ai monaci secondo la cucina tradizionale della comunità dello Sri Lanka, cui poi parteciperanno tutti i presenti.

    Nel pomeriggio si svolgerà  una meditazione, l’insegnamento, la recita di mantra,la lettura di sutra e il festeggiamento dell’evento. 

    La nostra aspirazione è quella di condividere questo giorno con tanti amici. 

    Ricordi di scuola, verità di oggi:  un percorso difficile tra l’autoritarismo, l’autorità e l’autorevolezza       

    di Rodolfo Savini

     

    Un ricordo sorto per caso da una lontana esperienza sui banchi di scuola. Come si può coltivare l’insegnamento di tante guide spirituali che ci inducono con  tranquillità e tenacia, nonostante la pesantezza del nostro cuore, a vedere ciò che sfugge al nostro sguardo? Quanto spesso smarriamo quel semplicissimo e banale incontro con il presente, che è già pienezza inesauribile in sé.  Il presente è semplicissimo poiché non richiede tecniche ma un semplice osservare le cose come sono e sono così proprio perché racchiudono ciò che sono state e ciò che saranno. Il presente è banale perché, incontrandolo, non sappiamo riconoscerlo a causa della nostra ignoranza. Se vi riuscissimo saremmo capaci di scoprire ciò che quel docente ci diceva guidandoci lungo quel percorso che volge verso l’autorevolezza. Non siamo in grado di avvertire le risposte a certe questioni di vitale importanza, anche se ci vengono date ogni momento, poichè dentro di noi non abbiamo ancora scoperto l’organo in grado di decifrarne i messaggi. Così non mi ero più posto il problema del rapporto tra autoritarismo, autorità e autorevolezza, ma ora quegli insegnamenti mi tornano in mente con la loro forza.

    Come fare a immergerci in quella profondità in cui i conflitti divengono occasione per un forte abbraccio pacificatore, anziché alimentarne altri? Dentro di noi e intorno a noi violenza e  dolore hanno posto le loro radici. In noi, con le innumerevoli violenze che facciamo alla nostra libertà e al nostro desiderio d’amore, intorno a noi con i conflitti che travolgono uomo e uomo, città e città, regione e regione, le culture tra loro, gli Stati tra loro. Possiamo dare un giudizio su queste tempeste? Le loro minacce  scaturiscono da motivi diversi o qualcosa le tiene insieme? Su quali è opportuno intervenire dapprima? Si possono affrontare insieme perché l’una non è altro che lo specchio dell’altra? Sembra proprio una condanna, un triste destino alimentato da avidità, rabbia e confusione dentro e fuori di noi. La domanda oggi si è fatta più intensa.


    Non possiamo rispondere con indifferenza a ciò che capita dentro di noi, intorno a noi. Talvolta il nostro passo è troppo veloce perché si possa  fermare a guardare e il comportamento ne subisce le conseguenze, perde il proprio baricentro. È un’onda che travolge interiorità ed esteriorità. Dobbiamo soffiare di più così da permettere alle nostre onde si travolgere le altre? È la strada battuta dall’autoritarismo, che risponde alle contraddizioni della realtà creandone altre più violente. Vorremmo fermare queste onde ma non ne siamo capaci. Possiamo percorrere le strade con le nostre bandiere di pace, ma tutto si dimentica troppo facilmente nel rumore della quotidianità. Fare appello all’autorità appare la soluzione più praticabile, più sicura: far sì che il vento soffi uniformemente sotto l’egida della giustizia nazionale e internazionale codificata nel tempo. Ma siamo sicuri che questa giustizia non sia la giustizia degli Stati più potenti? Si ricorda dei Paesi poveri? Di quelli in cui il lavoro è sfruttamento? È questo uno squilibrio che può mettere in discussione i nostri parametri di giustizia, i nostri criteri di autorità. Ci si potrebbe anche “educare” a soffiare con più leggerezza, a tramutare il nostro soffio in canto? L’autorevolezza ha questo suono, è la fiducia che sgorga da un’esperienza. Il vento, che increspa il mare del mondo e delle coscienze, si può placare nella misura in cui prestiamo uguale attenzione alle onde e al soffio del vento, a ciò è dentro e a ciò che è fuori di noi. Solo da questa unione potrà nascere qualcosa di nuovo. L’autorevolezza vuol dire saper affrontare i problemi che travolgono la società da una prospettiva diversa, né con quella della reattività prepotente dell’autoritarismo, né con la formalità fredda ed inerte dell’autorità, ma con quel calore che scaturisce dall’aver scoperto veramente la capacità di saper guardare attimo per attimo in due direzioni potendo così tenere insieme, in quell’unità che è la creatività dell’amore, ciò che è già insieme ma che l’uomo ha separato nel momento in cui l’attaccamento, l’odio e l’illusione hanno preso possesso di lui.

    Questa consapevolezza dà vitalità alla più radicale di tutte le libertà, quella di aderire perfettamente al reale nella sua mutevolezza. Può darsi che rimanga un sogno per molti di noi che preferiscono ricorrere alla chiarezza fornita dai cliché abituali. Ma così non era per quell’insegnante che sui banchi universitari ci faceva riflettere su questi temi, presentandoceli non come un “io sono così”, ma come un oggetto prezioso che scopriamo in mille modi sfaccettato. Ecco il volto di quell’autorevolezza che sa guardare, violenze e debolezze contemporaneamente e si accorge che, per essere veramente giusti, non li si può guardare come due nemici schierati in battaglia, ma come parti di una dimensione sconvolgente in cui il violento non è solo lì, non è solo lui, ma sono anch’io per tutte le volte che ho ferito l’altro. E il debole sono ancora io, allorché sono stato ferito. Solo se sarò in grado di vedere contemporaneamente questi diversi volti della realtà, la mia azione potrà essere autorevole. Da questa dimensione profonda, che è nutrimento essenziale della nostra coscienza, non emerge una tolleranza che taccia davanti al sopruso. È solo che questi eventi non innescano più il meccanismo della rivalsa. La motivazione sarà alimentata allora da un’attenzione che travalica la giustizia umana, sarà sostenuta da un guardare aperto che sappia comprendere l’equilibrio sfuggevole tra chi sopraffà e chi viene sopraffatto e che sappia di conseguenza agire creando ciò che non è né sottomissione né prevaricazione. Si apre il sentiero di una pace che non si spegne e che, dopo averla incontrata, non si dimentica. Per edificare questa pace si potrà anche procedere aggiungendo mattone a mattone lungo la strada della legalità, ma se ciò avviene su un terreno fatto di egoismi, privati e collettivi, la nostra costruzione potrà facilmente vacillare. È per questo che è allo stesso tempo necessario trovare anche un’altra sorgente per il nostro agire che scaturisca  da una esperienza soprattutto  individuale che ti scuota così profondamente nell’intimo da farti incontrare con quella paura radicale, con quella piccolezza esistenziale che ti induce al silenzio: un’esperienza che ti manifesti come la vita, il “senza-morte”, superi la morte stessa. È l’incontro con qualcosa che trasforma la realtà: la sorpresa per una bellezza diversa da quelle cui siamo abituati, una bellezza che diviene “Pace che contagia”. Se saremmo in grado, ogni momento, di purificarci con quel silenzio, il nostro sguardo sul mondo potrebbe, inaspettatamente, aprirsi. Gli egoismi potrebbero diventare meno tenaci e le oscure ombre del fanatismo, pronte a insorgere ancor più pericolose e violente di qualsiasi autoritarismo, meno minacciose. Pensiamo a queste domande e scriviamoci.

      “All’udire il vero insegnamento il cuore ricettivo si fa sereno come un lago, profondo, limpido e silente”  (Dhammapada, 82)

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