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Trimle apr – giu 2011 n° 2 Anno XIII

 

 Il Trimestrale n° 2 apr – mag – giu 2011 Anno XIII

Indice:

Un Buddha di carne non può passare attraverso il tempo di Gianluca Del Cucina

Negare la morte di Massimiliano Foglini

Felicità, ansia e paure di Rodolfo Savini

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“Un Buddha di carne non può passare attraverso il tempo”    di Gianluca Del Cucina                                                                                

 Nulla che sia fatto di carne può durare per sempre, e nemmeno conservare la propria forma per molto tempo. La carne si corrompe e decompone, tutto ciò che è fatto di carne invecchia e muore. Ma questa non è un’imperfezione della carne, è la natura della carne, la perfetta espressione della carnalità. Siamo veramente dei Buddha. Buddha di carne.

Barry Magid (Maestro dell’Ordinary mind Zen school)

 Le nostre speranze sono tutto per noi, ne muoiono alcune e subito vengono sostituite da altre  “quando sarò grande farò questo o quest’altro” poi la vita invece va per conto suo e ti ritrovi grande e le tue speranze sono state tradite-svanite, e soffri….Ma ecco che come la fenice risorgonno dalle proprie ceneri e sotto altre spoglie altre visioni di vita futura si rigenerano. E’ l’Uomo che sembra non poterne fare a meno, è cosi piacevole coltivare speranze per la nostra vita, ci allevia il peso della quotidianità, è così euforizzante sentirle sorgere dentro di noi è come l’arrivo della primavera, lo sbocciare dei primi fiori. Ma ecco che assieme alle speranze arrivano anche i timori. La vita spesso ci maltratta, la sofferenza è nostra compagna inseparabile ed il pensiero che le nostre speranze vengano nuovamente deluse si fa strada, il pensiero di non essere capaci di poterle realizzare ci perseguita, il pensiero di non avere molto tempo ci tormenta. Speranze e timori sono le facce della stessa medaglia, rinunciare alle une significa anche rinunciare alle altre.

Già…ma come possiamo rinunciare a qualcosa che è proprio della natura umana, come possiamo rinunciare alla nostra carnalità, la stessa materia di cui siamo costituiti? Non possiamo rinunciare alla nostra carne se non morendo, ed allo stesso modo non possiamo rinunciare alle nostre speranze, semplicemente loro sorgono, si manifestano e con esse si manifestano i timori. Entrambi hanno i loro buoni motivi per farlo, se non altro le prime ci fanno sentire più spensierati e i secondi ci aiutano a non esserlo troppo. Desiderare qualcosa non è un difetto, non è un problema, è proprio della nostra natura desiderare qualcosa di buono per noi, non dobbiamo estirpare il desiderio dai nostri cuori, si inaridirebbero. Siamo dei Buddha così come siamo, siamo già perfetti, la natura ci ha creato così, non c’è niente da cambiare in noi. Buddha era un uomo ed in quanto uomo è andato incontro a vecchiaia, malattia e morte, il suo grande merito è stato quello di aver pienamente accettato l’impermanenza delle cose e di aver quindi lasciato cadere tutti gli attaccamenti.

Non possiamo estinguere ciò che fa parte della nostra natura, la nostra vita si estinguerebbe o ne verrebbe fortemente limitata. Che senso ha dunque praticare se le nostre vite non possono essere trasformate-migliorate dalla pratica stessa?

Abbiamo mai provato a lasciar cadere ogni attaccamento alle nostre prospettive di trasformazione-miglioramento-guarigione a riguardo della nostra vita?

Se la risposta a questa domanda è NO, beh, allora la pratica ci aiuterà a farlo.

Se la risposta a questa domanda è SI, beh, allora la pratica ci aiuterà a farlo ancora, ancora e ancora.

Negare la morte                                         di Massimiliano Foglini

 Credo che il pensare incessantemente alla morte possa ritenersi un caso patologico così come pure il non pensarci mai. Nel mezzo poi di questi estremi abbiamo un’infinità di varianti: da chi ci scherza sopra a chi ne ha paura, da chi pensa che sia parte della natura umana a chi lo sa! Punto e basta. Altri si immaginano che la morte sia un punto di passaggio per un’altra vita, altri un mistero che non possiamo comprendere.

Tutte le religioni hanno degli insegnamenti o delle rivelazioni riguardo l’escatologia e tutti i filosofi hanno speso fiumi di parole sul senso della vita e della morte… ma noi, per quanto possiamo, cerchiamo comunque di evitare il discorso o di liquidarlo più in fretta possibile. Fateci caso, i cimiteri sono quasi sempre dietro le città o in posti appartati. I morti vengono truccati e vestiti a festa. Quando poi parliamo di morte lo facciamo con imbarazzo, quasi a dover giustificare la cosa: “Così ha smesso di soffrire”, “Sono sempre i più buoni ad andarsene”, e così via con un campionario infinito di frasi già fatte degne dei fogliettini che si trovavano dentro dei famosi cioccolatini.

Ma quante volte ci siamo chiesti profondamente “Cos’è la morte?”. “Chi muore, quando si muore?”.

Proviamoci. Prendiamo ad esempio la nostra nascita: ecco, siamo nati… ma prima cosa eravamo? Cos’era la vita prima della nostra nascita? Non lo sappiamo! D’accordo, torniamo quindi alla nostra nascita. Uno dei primi inganni in cui la coscienza cade è quando, fin da neonati, iniziamo a percepire il nostro organismo come separato dall’ambiente che lo circonda per poi identificarci esclusivamente con questo organismo (e questa è la prima causa e l’origine delle famose angosce esistenziali). Questa identificazione crea automaticamente il falso supposto che la vita sia qualcosa che inizia con la nascita e finisce con la morte. Nascita e morte diventano così opposti e contrari. Ed è in questo contesto che sorge la concezione del tempo: adesso sono un organismo che è vivo ma un giorno futuro sarò morto. In realtà, nascita e morte sono una cosa sola. La concezione del tempo è solo una convenzione, il presente è senza tempo. Nel presente assoluto non esiste né passato  né futuro. Nel momento presente la nascita è la condizione di non avere un passato e la morte di non avere un futuro. “Nascita e morte” sono due modi di parlare dello stesso “Momento senza tempo”, e, citando Ken Wilber, “vengono illusoriamente separate solo da coloro che non riescono ad evitare di attaccarsi alla successione temporale, negandosi perciò il dono di vedere tutte le cose nella loro simultaneità”. Nascita e morte sono una cosa sola in “Questo Momento Senza Tempo”! Ma l’uomo identificato con il proprio organismo non può sopportare la possibilità del suo annullamento, non può accettare la propria morte, ed è proprio questa repressione che crea la proiezione del conflitto tra la vita e la morte. Negare l’unità di vita e morte che è propria del “Momento Presente” fa nascere l’idea del tempo. Rifiutando la propria morte l’uomo decide di avere un futuro, quindi egli non può esistere solo “ora” ma anche nel tempo. Egli non può più trarre gioia dal vivere l’oggi perché deve vivere anche il domani, ed è proprio nel tentativo di sfuggire alla morte che l’uomo abbandona l’Adesso per gettarsi nel tempo. A questo punto avviene un’altra forte identificazione perché “non accettando la morte” e vedendo che il proprio organismo è mortale, l’uomo si rifugia in qualcosa che gli appare più durevole, cioè le idee. L’idea dell’immortalità! Egli divide il proprio organismo in anima e corpo: è da questa ulteriore divisione che sorge la sensazione di essere qualcuno che possiede il corpo e questo qualcuno è l’ego, l’io. L’ego vive in una costante proiezione nel futuro come pseudo garanzia che la morte non venga a coglierlo proprio ora. Così si organizza affinché  questo presente diventi un altro presente e poi un altro presente ancora e così via. Con questo meccanismo mentale il “Momento Presente” (che è sempre senza tempo), appare come una serie di periodi che sembrano durare non più di due o tre secondi: l’Eterno Presente viene percepito come “presente che passa”. A questo punto potremmo dilungarci ulteriormente sullo sviluppo dell’ego, sulle sue varie identificazioni, repressioni e proiezioni ma così perderemmo di vista il tema prefissato: negare la morte.

Quindi chiediamoci ancora: Cos’è la morte? Chi muore?

In molti percorsi spirituali, quando si parla di morte, si intende la morte dell’ego, il riuscire a vedere l’identificazione che abbiamo con il nostro io e conseguentemente spostarsi in un’altra prospettiva dalla quale osservare le cose in maniera reale (le mortificazioni e le pratiche per annullare l’io sono, dal mio punto di vista, un’aberrazione e una sbagliata interpretazione di cosa significhi trascendere l’ego). A questa morte dell’ego si contrappone la nascita, la ri-nascita dell’esistenza, l’illuminazione, il Risveglio all’Essere.

Gurdjieff dice: “Nascere sta a significare l’inizio di una nuova crescita dell’essenza [...] ma per essere capaci di giungervi, o perlomeno di intraprendere questa via, l’uomo deve morire; questo vuol dire che deve liberarsi da una moltitudine di attaccamenti e identificazioni che lo mantengono nella situazione in cui è. Nella sua vita egli è attaccato a tutto, attaccato alla sua immaginazione, attaccato alla sua stupidità, attaccato persino alle sue sofferenze, forse più alle sue sofferenze che ad ogni altra cosa. Egli deve liberarsi da questo attaccamento. [...] Quando comincia a conoscere se stesso, vede che non possiede niente, tutto ciò che ha considerato suo, le sue idee, i suoi pensieri, le sue convinzioni, le sue tendenze, le sue abitudini, le sue stesse colpe e i suoi vizi, niente di tutto questo gli appartiene: Tutto si è formato per imitazione, oppure è stato copiato da qualche parte, tale e quale. L’uomo che sente tutto ciò, sente la sua nullità. [...] Questa continua coscienza della sua nullità [...] gli darà finalmente il coraggio di morire [...], rinunciare veramente e per sempre a tutti quegli aspetti di se stesso che non sono necessari alla sua crescita interiore [...]: il suo “falso io” e poi tutte le sue idee fantastiche sulla sua “individualità”, “volontà”, “coscienza”, “capacità di fare”, sui suoi poteri, sulla sua iniziativa, sulla sua determinazione, e così via”.

Se riusciamo a vedere oltre le nostre identificazioni ecco che il nostro mondo si espande fino all’infinito: chi muore quando si muore?

Se comprendiamo profondamente che ad ogni nostra inspirazione molte cellule nascono e ad ogni nostra espirazione molte cellule muoiono… cos’è la morte?

Vita e morte in questo momento senza tempo sono una cosa sola. Noi e gli altri, in questo momento siamo una cosa sola. Ieri, oggi, domani in questo momento sono una cosa sola. Tutto e nulla, fuori e dentro in questo momento sono la medesima cosa. Solo un pensiero può dividere Tutto, solo una nostra identificazione può illusoriamente frantumare la realtà di ciò che è.

Cos’è la vita? Cos’è la morte?

Chi nasce? Chi muore?

NEGARE LA MORTE.

Felicità, ansia e paure                              di Rodolfo Savini

 Il Buddha ci ha risvegliato alla comprensione del dolore eppure l’energia che ci tiene in vita è quella del piacere e della felicità.

Un dolore non compreso diviene un insulto alla vita, alla propria e a quella altrui.

Suscita rancore e rabbia se cozza con la certezza che la vita sia chiusa nei nostri sensi. Suscita rassegnazione se si assomma ad un’esistenza che si è arresa al conflitto del vivere. Il primo impulso ci induce a voler negare il dolore, a combatterlo e a sconfiggerlo, con il rancore che monta diventando vendetta. Al contrario, seguendo il secondo impulso, con un atteggiamento remissivo, la vita si annebbia, si smarriscono i confini e lo spazio si addensa e ci pesa addosso impedendoci di fare e pensare.

L’esigenza di comprendere il dolore vuol dire saper scivolare tra queste due dimensioni. Tra un “io” ribelle e un “io” incapace a motivarsi, vuol dire cioè cominciare a sperimentare questo equilibrio e le sue sbandate. A trovare quella via di mezzo in cui sperimentare appieno la ricchezza dell’esistenza, nelle sue vittorie e nelle sue sconfitte insieme.

E’ la via della consapevolezza di cui il Buddha è stato un grande Maestro. Il suo insegnamento ravviva l’esigenza di apprendere e percepire dentro di noi l’impulso a sapersi destreggiare lungo il percorso della nostra esistenza.  Il suo primo insegnamento è perentorio nell’affermare che tutto è dolore. Se il dolore fosse questo muro che si oppone all’esistenza, la vita non sarebbe altro che tristezza, assenza di vitalità, la vita ucciderebbe se stessa. E’ chiaro che il Buddha non si limita ad accettare–subire il dolore, ma anela a comprenderlo. Vale a dire a disinnescare quelle reazioni di vendetta-rassegnazione. E’ evidente il continuo mutamento che dalla nascita ci conduce alla malattia, alla depressione, alla vecchiaia e alla morte. La soluzione potrebbe essere quella radicale del non-nascere. In certi momenti della nostra esistenza può darsi che questa vaga ombra sia apparsa nella nostra mente. Il tempo non regredisce, siamo nati e volerlo negare può condurre a togliersi dalla vita oppure, con viltà, a voler togliere gli altri dalla vita per sentirsi capaci di affermare la propria.

Se riuscissimo a sottrarre alla nostra esistenza ciò che avidità e debolezze vi sovrappongono, sarebbe più facile entrare in rapporto con una felicità spontanea, non indotta o minacciata da eventi esterni. La nostra felicità è invece proprio quest’ultima, è spesso una felicità sostenuta soltanto da eventi esterni. Se la felicità, per proteggersi dalle minacce esterne ci induce al non-intraprendere, al non-sperimentarsi, al non-rischiare, al non-nascere, non farebbe altro che togliere alla nostra esistenza quell’energia che le dà senso. La vita non sarebbe altro che un perenne scivolare di dolore in dolore fino al salto finale.  Se così fosse ogni momento di felicità produrrebbe esattamente l’effetto opposto, più dà ricchezza alla nostra esistenza, più ci rende vulnerabili alla minaccia della perdita, più inermi al cospetto di onde crescenti di sofferenza.

Ogni felicità si edifica sul terreno di un tempo che scorre e che così come ce la fa apparire, allo stesso modo ce la fa perdere. Nonostante questo il sentimento della felicità è ritenuto duraturo, un diritto naturale.  Nei momenti difficili della vita si confronta con una sensazione di precarietà, con  un dolore intimo che soggiace nella nostra coscienza, con il dubbio. Eppure la ricerca della piacevolezza e della felicità, pur scossa nella sua certezza, pur ridotta ad una finzione o a uno stordimento è una medicina che sa metterci al riparo dal confronto faccia a faccia con questa precarietà, con la sfuggevolezza e l’impermanenza di tutto ciò che nasce.

Con tenacia, nell’affermare la vita, ci proponiamo più o meno coscientemente di saltare al di là della voragine della morte, della perdita, del  non-senso, del non-io. Si esprime con una sfida alla vita. Nel suo seno c’è la morte, ma io la sfido ogni momento affermando il “mio” desiderio, non sempre consapevole dei rischi che comporta. Il fallimento inevitabilmente ci sarà, la morte avrà la sua vittoria ma almeno l’ho sfidata, per un momento sono riuscito a dominarla, a sconfiggerla, a negarla.

Molto povera è quella ricerca della felicità che vaga qua e là alla ricerca del proprio oggetto o che si accontenta di ciò che appare fuggevolmente sullo schermo della propria mente. Quando il desiderio viene arricchito di energia allora si concentra, si polarizza, indirizza la nostra mente e riesce a durare quell’attimo in più che gli permette di sconfiggere la morte. Cavalcando i desideri cerchiamo di portare il nostro io al di là della paura e di centrare la felicità, di conquistarla, e quindi di possederla e farla propria.

Il pericolo insito in questa energia vitale concentrata è il rischio di scivolare verso la violenza. L’ansia di essere felici poggia sulla paura di non esserlo. E’ un percorso senza fine ma più realisticamente, è un girare in tondo. Dietro di noi lasciamo un’ombra da cui vorremmo sottrarci, ma la ritroviamo al passo successivo. I veleni dell’arroganza e dell’invidia alimentano questo movimento che ha nell’ego il suo perno. Anche il desiderio della felicità, ravvivato dalla motivazione e dalla volontà, ha bisogno di essere filtrato da un comportamento etico. Così sarà fonte di crescita e di aiuto non solo per l’io che lo esprime, ma è anche all’io degli altri, ad ogni “io” che ci circonda. Può divenire altruismo. Se questo filtro non c’è o è inquinato da una avidità meschina la sfida lanciata alla morte diviene una freccia che si compiace di aver colpito il bersaglio, senza accorgersi che quel bersaglio purtroppo è lui stesso, è il ciclo del nascere e morire. Se invece è scoccata alla luce dell’altruismo diviene aiuto, diviene scoperta scientifica, diviene messaggio di pace e di crescita.

Vi è anche la paura di essere felici che rimanda ad una visione dualistica dell’esistenza. La via del “bene” e del “male”, della saggezza e dell’ignoranza. Questa dimensione dualistica è portata a dividere e contrapporre. Da un lato vi è il piacere dei sensi che si nutre e crea attaccamenti e l’avversioni.  Dall’altro vi è la contemplazione interiore del dramma di un’esistenza (qualunque essa sia) che, una volta nata, è destinata a spegnersi.

Non si può negare che la paura di essere felici, se per felicità intendiamo il veicolo sensoriale, è un importante freno per osservare, comprendere e recidere le propensioni nocive a sè e agli altri. Il manto protettivo di regole e discipline calato sull’attività sensoriale è pressochè indispensabile. Aiuta a distogliere la mente dalla reattività e ad esercitare l’uso di un altro senso, quello della consapevolezza di sè, delle proprie fragilità e potenzialità. La creazione di un ambiente protetto dove il “bimbo” possa imparare a muovere i primi passi è indispensabile. Il Buddha in questo senso suggerisce l’esigenza di apprendere l’uso di questi “mezzi abili” e la comunità, il sangha sono di aiuto e sostegno affinché ciò accada. Essi servono per andare “controcorrente” rispetto a quel coacervo di impulsi conflittuali cui i sensi danno luogo. Se la felicità è questo stridente conflitto allora ben venga la paura di essere felici, è un sano “stare a casa”. La paura di essere felici emerge, subdola, allorchè questi “mezzi abili” divengono essi stessi  il fine della nostra esistenza. Questo manto protettivo, che in un caso è una protezione indispensabile, dall’altro è un indulgere alla cecità. E’ un impedirsi di guardare con i sensi “in modo diverso”, con una mente meno costretta dal mio, dal tuo, da scelte egoistiche. Questo indulgere nell’ovatta della “pratica meditativa” può diventare una tranquilla abitudine, una “casa” da cui fa paura uscire.

La serenità senza condizioni e senza confini, coltivata con i mezzi abili del discernimento, viene soffocata dalla paura di “essere felici”. La vita non può arrestarsi in quel bozzolo protettivo, vuole uscire e aprirsi “nuovamente” al mondo dei sensi. Vuole rinascere come felicità accogliente, un abbraccio al bene e al male, alla gioia e al dolore, con la stessa intensità, premura e calore affettuoso.

Se questo non accade si consolida la diga del dualismo, ci si chiude nel “bene” e si condanna il “male”, o, peggio ancora, ci si compiace del “male” altrui per sentirsi riconfermati nella propria scelta. L’ultimo ostacolo della pratica interiore, il timore di poggiare il piede sulla terra sconosciuta della pace è il confronto con  l’invidia. E’ l’ultimo inganno del dualismo. Siamo consapevolezza e corpo, e l’equilibrio, l’equanimità è nell’accorgersi che tra loro non c’è una barriera, che entrambe vogliono la stessa identica cosa, come un piede vuole l’altro. Se si cura questa malattia, allora il bozzolo si dissolve, allora nascono uomini “nuovi”, uomini di pace. Che si possa fare esperienza dell’ansia che sputa rabbia, della rassegnazione che stringe alla gola, dell’invidia che nega la condivisione e la gioia partecipe.

 Dice il poeta: “ l’acqua scorre, sul ponte la gemma spumeggia nella mano aperta”

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