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TRIM.LE ott-dic 2011 Il laico Anathapindika

 Trimestrale  n°3-4,  Anno XIII  ott.nov-dic  2011

 

Un testo e alcune riflessioni

Il Sutra di Anathapindika

con riflessioni di:

R. Savini    Anathapindika, il primo socio de La Pagoda     

e Gianluca Del Cucina           Riflessioni su anatta     

 

 

Inegnamenti a Anathapindika

AnathapindikovadaSutta dal Majjhima Nikaya 143

 

 Questo ho sentito 

 Un tempo  il Sublime soggiornava presso Savatthi, nel Boschetto di Jeta, nel parco di Anathapindika. A quel tempo Anathapindika il capofamiglia era gravemente malato e molto sofferente. Quindi Anathapindika il capofamiglia disse ad uno dei suoi uomini,

“Vai dal Sublime e, appena giunto, salutalo riverentemente e poi gli dici: ‘Signore, Anathapindika il capofamiglia è gravemente malato e molto sofferente. Vi rende omaggio prostrandosi in segno di rispetto.’ Dopo vai dal Ven. Sariputta e, dopo averlo salutato con rispetto gli dici: ‘ Venerabile, Anathapindika il capofamiglia è gravemente malato e molto sofferente. Vi rende omaggio prostrandosi in segno di rispetto.’ Quindi gli dici: ‘Sarebbe bene se il Ven. Sariputta visitasse la casa di Anathapindika.’ ”

“Va bene, signore” rispose l’uomo a Anathapindika il capofamiglia, quindi si recò dal Sublime e, ivi giunto, dopo esserglisi prostrato innanzi, si sedette ad un lato e disse: “Signore, Anathapindika il capofamiglia è gravemente malato e molto sofferente. Vi rende omaggio prostrandosi in segno di rispetto.” Poi si recò dal Ven. Sariputta e, ivi giunto, dopo esserglisi prostrato innanzi, si sedette ad un lato e disse ‘Venerabile, Anathapindika il capofamiglia è gravemente malato e molto sofferente. Vi rende omaggio prostrandosi ai vostri piedi. ” Quindi gli disse:  “Sarebbe bene se il Ven. Sariputta visitasse  la casa di Anathapindika.’ “.

Quindi il Ven. Sariputta, dopo aver preso ciotola e mantello, si recò alla casa di Anathapindika il capofamiglia assieme al Ven. Ananda. Lì giunto, si sedette su un seggio predisposto e disse a Anathapindika il capofamiglia: “Spero che tu stia meglio, che ti senta tranquillo, che i dolori siano diminuiti e non aumentati e che la tua malattia si sia attenuata.”

[Anathapindika:] “Non mi sento meglio, venerabile. Non sono tranquillo. I miei dolori sono aumentati, e non diminuiti. La malattia si evolve in maniera grave. Forti dolori mi trafiggono la testa, ,… o mi tagliano lo stomaco,… sento nel corpo un tremendo bruciore. Non mi sento meglio, venerabile. Non sono tranquillo. I miei dolori sono aumentati, e non diminuiti. La malattia si evolve in maniera grave..”

[Ven. Sariputta:] “Allora, capofamiglia, dovresti esercitarti in questo modo: ‘Io non avrò attaccamento …  al senso della vista; la mia coscienza non dipenderà dal senso della vista.’ Così dovresti esercitarti.

‘Io non avrò attaccamento al senso dell’udito… dell’olfatto… del gusto… del tatto; la mia coscienza non dipenderà dal senso del tatto.’ … ‘Io non avrò attaccamento agli oggetti mentali; la mia coscienza non dipenderà dagli oggetti mentali.’ Così dovresti esercitarti .

 [qui Sariputta procede con ben dieci campi in cui Anathapindika può esercitarsi per superare il proprio dolore – ora esulano da questa lettura, li esamineremo in un prossimo fascicolo]

 Detto ciò, Anathapindika il capofamiglia pianse e versò molte lacrime. Il Ven. Ananda gli chiese:” Sei addolorato, capofamiglia? Ti sei rattristato?”

“No, venerabile. Non sono né addolorato, né rattristato. Da molto tempo seguo il Maestro e la comunità dei monaci, ma non ho mai ascoltato un discorso sul Dhamma come questo.”

“Questo breve discorso sul Dhamma, capofamiglia, non è stato mai fatto ai laici vestiti di bianco. E’ stato fatto solo a coloro che hanno intrapreso la vita religiosa.”

“Allora, Ven. Sariputta, dètta questo breve discorso sul Dhamma ai laici vestiti di bianco. Vi sono persone appartenenti a vari clan che sono pronte ad ascoltare queste parole di Dhamma. Ci saranno coloro che le capiranno.”

Allora il Ven. Sariputta e il Ven. Ananda, dopo aver dato questo insegnamento a Anathapindika il capofamiglia, si alzarono dai loro seggi e andarono via.

Poi, non molto tempo dopo, Anathapindika il capofamiglia morì e rinacque nel reame paradisiaco dei deva Tusita. Quindi Anathapindika il figlio dei deva, in una notte inoltrata, illuminando completamente il Boschetto di Jeta con la sua luce abbagliante, si recò dal Sublime e, appena giunto, gli si prostrò innanzi e stette ad un lato. Poi rivolse al Sublime questi versi:

Questo Beato nel Boschetto di Jeta

assieme alla sua comunità di veggenti,

dove dimora con il Dhamma maestoso:

fonte di estasi per me.
Attraverso l’azione, la perfetta conoscenza, e le qualità mentali,

la virtù, il più alto [modo di] di vita:

gli esseri mortali vengono purificati,

non per la loro appartenenza a clan o per la loro ricchezza.
Il saggio,

vedendo i vari benefici,

nel penetrare adeguatamente il Dhamma,

li rende perfettamente puri.
Come Sariputta:

dove nessun monaco che è andato al di là della conoscenza,

lo supera in saggezza, virtù e calma mentale.
Questo disse Anathapindika il figlio dei deva. Il Maestro approvò. Quindi, Anathapindika il figlio dei deva [intuendo] “Il Maestro mi ha approvato,” si prostrò innanzi, e scomparve girandogli intorno tenendo la destra.

Tradotto in italiano da Enzo Alfano

 

Anathapindika, il primo socio de La Pagoda     di R.  Savini

 Siamo abituati a spendere. I saldi sono all’ordine del giorno: ogni vetrina, in modo più o meno crudo, mette in mostra quella parola  Ad uno sguardo più attento anche sui nostri volti ci capita di leggerla. Può anche darsi che si sia una società in saldo con una enorme quantità di ‘merce’ sul mercato e con una scarsa qualità della stessa. La nostra vita è in ‘saldo’, spesso viviamo sottocosto, pronti a liquidare il nostro patrimonio umano. Ci accontentiamo di luoghi comuni o li combattiamo con le mani vuote di progetti. Siamo spesso al cospetto di un nulla con cui consolarci a vicenda del non-senso della nostra esistenza. Siamo dei protagonisti di ‘seconda mano’ che cominciano a rendersi conto dell’impossibilità di riposare sulla comoda ragnatela di ciò che è abituale. Rendersi conto di questo può ancora esserci di aiuto per prevenire la malattia della ‘tristezza’.

Anathapindika è ormai caduto in questa tristezza, è “gravemente malato e molto sofferente”, la sua è una malattia del corpo che contagia e  risucchia in sè la coscienza. Nessuna speranza di guarigione riesce più a far varco in questa coscienza affondata nel dolore del proprio corpo malato. Le parole del monaco Sariputta, che il Buddha invia per consolare Anathapindika, non hanno alcun effetto se non quello di aumentare la sua sofferenza.  E’ come se quelle parole ficcassero il dito proprio là dove la ferita è ancora aperta. Parole dure? Non sono nulla rispetto a quelle con cui Anathapindika descrive il proprio stato. (vedi testo)

Sariputta allora fa un passo inatteso. Inatteso per Anathadinka ma anche per noi.  Gli dà un insegnamento che lo disorienta e allo stesso tempo, nello stupore, trasforma il suo rapporto tra corpo e coscienza. Anathapindika non può trattenersi dall’esclamare: “Non ho mai sentito un discorso sul Dhamma come questo”.

Sia il monaco Sariputta, sia Anathapindika, il capo-famiglia, stanno entrambi facendo un grande passo avanti. Il primo trasmettendo al laico Anathapindika un insegnamento per ora riservato, data la sua sottigliezza, solo ai monaci e, per converso, Anathapindika fa anche lui un passo avanti: “è un laico vestito di bianco”.

Un’onda di insegnamenti e di guide al benessere invadono oggi, attraverso ogni mezzo, la nostra mente (anche queste righe non si allontanano da questa via), e altrettante le ‘beviamo’, magari assaporandole prima del ‘caffè’. Oggi ci mancano due semplicità: quella del ‘saper’ seminare e quella del ‘saper’ coltivare. Troppi semi e troppo concime chimico. Un po’ di ecologia  non farebbe male alla nostra coscienza. Attraverso gli insegnamenti di Sariputta Anathanpindika riesce a guarire. Ma il testo non dà poi tanta speranza: poco dopo Anathapindika morì. Aggiunge però che rinacque in un reame paradisiaco proprio per aver accolto gli insegnamenti del monaco. Evidentemente questi insegnamenti sono stati una medicina efficace per la mente anche se non lo sono stati altrettanto per il corpo. Come sempre nella vita non si riesca ad avere tutto.

Comunque è avvenuto, rispetto all’Anathapindika di prima, un cambiamento non indifferente. Allora egli era del tutto immerso nel dolore, sia col corpo sia con la mente, ora invece il suo corpo continua ad essere ammalato, ma la sua mente no, la sua mente è guarita. Con la sua rinascita diventerà “luce abbagliante” e a “notte inoltrata illuminando completamente il boschetto” dove dimorava in quei giorni il Buddha, gli rende omaggio per l’insegnamento che il suo monaco Sariputta gli aveva dato.

Oggi come oggi abbiamo a disposizione un arcobaleno di insegnamenti, fino a pochi decenni fa’ del tutto sconosciuto o guardato con una ironia sospettosa. Abbiamo al contempo una mare di occhi e di orecchie pronte a guardare e udire, ma, cose si dice, a guardare senza vedere e ad udire senza ascoltare. C’è il pane ma noi andiamo in cerca dei biscotti. Ci sono molti insegnamenti ma non riusciamo a scorgervi la saggezza (se non per qualche giorno o poco più) e chi cerca ha lasciato da parte il “vestito bianco”. Se è così ecco allora che cosa ci manca e perchè, distrattamente,  scivoliamo nuovamente nel consumismo. Anathapindika ci dice come si acquistano questi “vestiti”: “attraverso l’azione, la perfetta conoscenza, le qualità mentali, la virtù, il più alto modo di vita gli esseri mortali vengono purificati” e alla saggezza è affidato il compito di renderli “perfettamente puri”.

Il monaco Sariputta e Anathapindika insistono ulteriormente su un altro punto cruciale  finora tralasciato: “vi sono persone appartenenti a vari clan che sono pronte ad ascoltare queste parole di Dhamma” e, poco oltre, che gli “esseri mortali vengono purificati  non dalla loro appartenenza a clan o per la loro ricchezza” ma solo nella misura in cui, ugualmente accessibile a tutti, sappiano educare le proprie attitudini e modi di vita.

La saggezza non è appannaggio di nessun clan e non pone alcuna discriminazione economica. Ma se è così allora è una sorgente cui liberamente attingere, è una sorgente continuamente alimentata dalla nostra trasparenza, senza alcuna distinzione di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Anathapindika è un ‘capofamiglia’, rappresenta cioè la figura per eccellenza di un laico, come sei tu, come sono io, come siamo noi. Nulla di particolare, se non l’anelito, a lungo sconosciuto, di liberarsi dal dolore e a far emergere dal corpo ciò che nel corpo è nascosto. Quella coscienza di sè, identificata e soffocata dal corpo,  è incapace di vedere, incapace di saggezza.

Il monaco Sariputta ci descrive quale sia, nell’insegnamento del Buddha, la via per uscire da questa identificazione egoica,. Sariputta dona per la ‘prima volta’ a un laico, ad un comune padre di famiglia, il gioiello prezioso della sua esperienza monastica. In tal modo lo rende libero da ogni clan e da ogni condizione economica. Lo rende responsabile di sè e degli altri. Lo rende consapevole dell’importanza dalla propria esistenza umana, pur soffocata dal dolore. Lo rende partecipe del compito di cui essa è protagonista.

Per quanto concerne la via che Sariputta trasmette ad Anathapindika occorre tutta una riflessione a parte.

 

Riflessioni su anatta    di Gianluca Del Cucina

 Prima di entrare nel merito del Sutta in questione e della caretteristica che introduce, è opportuno fare una breve descrizione di anicca e dukkha che assieme ad anatta costituiscono le tre caratteristiche dell’esistenza secondo il Buddhismo.

La prima delle tre è anicca che viene tradotto con impermanenza. Questa caratteristica ci dice come tutto ciò che nasce o viene creato sia impermanente, destinato cioè a invecchiare ed a morire o distruggersi   pag 6  e nella fattispecie per gli esseri viventi, ed in particolare l’uomo, anche ad ammalarsi prima della morte. Proprio l’impermanenza di ciò che nasce o viene creato ci conduce direttamente alla seconda caratteristica dell’esistenza: dukkha, tradotto come insoddisfazione o sofferenza. La sofferenza è generata dal fatto che dobbiamo invecchiare, ammalarci e morire; l’insoddisfazione, sinteticamente, invece dal fatto che anche le cose che ci danno piacere hanno una fine.

Arrivando ad anatta possiamo vedere come attraverso la meditazione e la contemplazione delle cose più semplici è possibile vedere come il nostro corpo ed il respiro siano privi di un sè sostanziale, addentrandosi nella contemplazione del respiro possiamo spingerci fino al punto di non avere più confini con il mondo esterno. In realtà il mondo non è esterno ma ci compenetra da tutte le parti. Lasciando che con il respiro l’esterno entri dentro di noi ci accorgiamo di come non ci sia una differenza tra il dentro ed il fuori, prendiamo in considerazione la salita e discesa, la differenza sta solo nel senso in cui le percorriamo.

Possiamo vedere come questo corpo sia composto di parti separate e nessuna di queste parti può essere considerata come sede dell’io.

Allora forse il nostro io sta in quello che pensiamo, ma anche i pensieri sorgono e svaniscono senza sosta, senza lasciare traccia, se questi fossero il nostro io anche questo andrebbe e verrebbe con essi, a volte ci saremmo a volte no e comunque sempre diversi. Lo stesso dicasi per i sentimenti, le emozioni, le sensazioni.

Dunque l’unica speranza rimane la coscienza (vinnana), cioè quella sensazione di fondo che ci accompagna costantemente che ci dice che questo corpo, questi pensieri, queste sensazioni e queste emozioni sono un qualcosa di unico, un io appunto. In altre parole il nostro io sarebbe l’idea unitaria e sostanziale che questo agglomerato di cose impermanenti dà. Il Buddha chiamava tutto ciò avijja: ignoranza.

C’è un passo dell’ Anattalakkhana Sutta in cui il Buddha parlando ai suoi primi cinque discepoli spiega molto bene cosa sia la coscienza:

“La coscienza, monaci, non è il Sé. Se la coscienza fosse il Sé, monaci, la coscienza non sarebbe soggetta alle malattie e si potrebbe dire a proposito della coscienza: “Che la mia coscienza diventi così. Che la mia coscienza non diventi così.” Tuttavia, poiché la coscienza non è il Sé, la coscienza è soggetta alle malattie, ed il Sé non ha la possibilità di dire a proposito della coscienza: “Che la mia coscienza diventi o non diventi tale per me.”

Il fatto che non possiamo gestire la nostra coscienza e farla essere   pag 7 come più ci aggrada, che non possiamo evitare di soffrire, dimostra come la coscienza sia soggetta ad influenze indipendenti da noi e perciò non può essere il nostro sè, che se fosse realmente tale dovrebbe essere indipendente da influenze esterne.

Ora senza addentrarci in sofismi complicati, a cui lo stesso Buddha spesso rispondeva col silenzio, possiamo renderci conto di come non esista un sè e che la sensazione che abbiamo della sua esistenza sia solo una illusione dettata dall’ignoranza, da una visione non retta.

Certo la questione rimane complicata in fin dei conti potremmo chiedere allora chi è che sente fame, freddo, dolore? Chi è che soffre, gioisce ed a diversi bisogni e voglie?

Non è un caso che in questo Sutta il Buddha, o meglio i suoi discepoli per lui, si siano rivolti ad un malato, è proprio il malato che si identifica con la “sua” sofferenza ed è proprio l’evidenza del dolore che ci fa vedere un sè in tutto ciò, ma allo stesso tempo il dolore ci dà anche la spinta per cercare risposte.

In questo senso possiamo dire che esiste un’io, nemmeno il Buddha negava l’esistenza della persona, ma esiste un qualcosa di questa persona che sia permanente?

Tutto quello che siamo è frutto dell’interazione tra più elementi, in continuo cambiamento, che si incontrano si uniscono e formano un qualcosa. Il nostro corpo è frutto di molecole di vari elementi, allo stesso modo il carattere, l’emotività, le idee ed i valori sono il frutto di imprinting, traumi, esperienze, sono l’incontro con il mondo che ci crea, che crea la coscienza.

Il Buddha lo spiega così:

“E’ bene dunque, o monaci, che voi comprendiate così l’annunziata dottrina: per qualsiasi ragione, o monaci, abbia origine coscienza, proprio per quella, e solo per quella, essa viene a determinarsi. Mediante la vista e le forme viene a determinarsi la coscienza visiva. Mediante l’udito e i suoni viene a determinarsi la coscienza uditiva. Mediante l’olfatto e gli odori viene a determinarsi la coscienza olfattiva. Mediante il gusto e i sapori viene a determinarsi la coscienza gustativa. Mediante il tatto e i contatti viene a formarsi la coscienza tattile. Mediante il pensiero e le cose viene a formarsi la coscienza mentale.”

La coscienza non è preesistente, ma viene in essere successivamente.Un bambino quando viene al mondo non ha coscienza di sè come un qualcosa di separato e unico, tale coscienza si forma con il tempo ed è destinata a modificarsi e a scomparire quando il suo tempo sarà finito, con la morte.

Quindi tutto ciò che è anicca è dukkha ed in conclusione è anatta, cioè privo di un sè sostanziale.

Come i nostri pensieri la coscienza di sè sorge da e svanisce nel vuoto, nel potenziale.

Ho dedicato più spazio alla riflessione sulla questione della coscienza perchè credo sia relativamente facile vedere l’insostanzialità degli altri kandha mentre per vinnana non è così.

Vorrei concludere con un’altra citazione sulla quale meditare:

“La sofferenza esiste, ma non il sofferente.

L’azione viene fatta, ma non esiste chi la compie.

Esiste la pace, ma non il pacificato.

C’è il sentiero, ma non chi lo percorre”

Questo ispirato passo ci rimanda ad una breve frase del nostro Sutta, una frase che forse sarà passata inosservata, ma che secondo me è molto, molto significativa. Mi riferisco a quando Sariputra descrive il Buddha così: “In lui comprensione e azione sono perfettamente realizzati.” cosa significa?

Il modo di agire comune a tutti noi è un modo di agire ‘finalistico’, nel senso che è finalizzato ad uno scopo? Questa modalità dell’azione oltre a riprodursi  – cioè a espandersi in mille altre azioni, finalità, obbiettivi da raggiungere e quindi a trascinarci sempre più nel samsara  – nasce in seguito ad una volizione cioè ad un impulso dettato da un sé. Un sé che peraltro, come abbiamo precedentemente visto, viene percepito come reale a causa di avijja. Dicendo che comprensione e azione sono perfettamente realizzati vogliamo dire che l’azione è compiuta senza volizione da parte di un sé, cioè non c’è alcun sé che agisce e l’azione viene compiuta semplicemente perchè appropriata e necessaria. In tutto ciò è possibile vedere la piena realizzazione del concetto di anatta.

 

 

 

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