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La via di fuga dal samsara: la virtù dell’incertezza

Riflessioni a margine di Rodolfo sull’insegnamento di Ajahn Mahapanyo al Centro Mandala ad Arezzo il 30 nov 13

 Mahaprajapati, che aveva allevato il Buddha alla morte della sorella, si reca dal nipote per chiedergli come può vivere i suoi insegnamenti una laica che ha scelto la via della spiritualità. Tra i diversi insegnamenti che il Buddha le trasmette ce ne è uno in particolare che aiuta a riflettere su un problema attualissimo: la fusione/scissione nella nostra vita tra quotidianità e spiritualità.

Talvolta sembra che la pratica ci aiuti a “volare alto” dandoci l’impressione di una tranquillità abbagliante in cui riposare, ma accanto vi convive il timore di smarrirla, ma anche smarrita rimane la nostalgia di ritrovarla. L’attrito del nostro quotidiano altera la lucentezza-pienezza sfiorata durante la pratica.

L’essere umano vive nel dualismo del cogliere e dello  smarrire, nel gioire e nell’rammaricarsi. Da un lato l’animo si nutre di Illuminazione-chiarezza-comprensione, dall’altro si accontenta di mangiare ciò ne è il residuo, le luci abbaglianti dell’effimero. Più si “vede” più piombiamo in un quotidiano che ci appare oscuro e inappagante, o meglio, lo troviamo appagante al momento della fruizione, per provarne, in seguito, disgusto. Più la comprensione della spiritualità filtra attraverso una rete concettuale più nel mio quotidiano è debole e senza radici, facilmente soggetta a capovolgersi nel suo contrario in frustrazione. Un pensiero sconfitto non accetta questa umiliazione e anzi, fa di questa un varco che porta ad acuire la lacerazione tra quotidianità e spiritualità.

Per il Buddha esiste una sola realtà che non consiste né nello sbilanciarsi nel guardare troppo in là, né di spegnersi nell’autocommiserazione, né tanto meno alimentare quel vano chiacchiericcio che risuona in parole vacue pronte ad assumere, alimentate dal soffio dell’ego, le sembianze dell’arroganza e della violenza.

Nel suo insegnamento a Mahaprajapati Buddha ci guida a come praticare nella quotidianità, a come  smussare ogni sbilanciamento. Stimola la fiducia nel sostenersi con una visione quanto più chiara di questo e di quello, nel vivere un quotidiano nutrito di equanimità. Ci conduce via via a comprendere l’importanza di samaditthi, della retta visione. E’ qui che si discerne come la legge di causa – effetto, il karma, sia capace di legarci ad un cieco  divenire, ma come possa altresì costituire la leva per sollevare il velo dell’ignoranza e vedere cosa si nasconde sotto la coltre delle abitudini. Più la nostra quotidianità è fatta di passioni, o meglio fino a quando le passioni muovono la nostra quotidianità, più queste attivano  il veleno dell’attaccamento. Sembra dolce al momento perché ha a che fare con un senso di apparente pienezza e di un possesso che sembra saziare, , ma alla lunga non sazia e il disamore che ne deriva esprime l’immensa potenza del karma. E’ in questa energia che dal passato trabocca nel presente per spingerci al domani che le abitudini serrano la loro presa, che la rete invisibile del samsara, del perenne divenire dell’apparenza, si materializza. Questa “realtà” ha in sé solo un barlume di luce, tale comunque da accecare il nostro debole sguardo, di fiaccare la nostra capacità di “vedere”, di risolversi appunto nell’assenza di samaditthi, di un retta visione.

Lo stesso Buddha nella sua esperienza di uomo ha vissuto nell’appagante pienezza del samsara, quando il bello e il piacevole sembravano colmare ogni aspetto delle realtà, ma si sentiva inappagato. Perché questo stato d’animo? Forse perché non si riesce a passare attraverso questa esperienza per scorgervi una ricchezza fatta del  “poco”,  non del “molto”, pervasa di luminosità, più che da un accecante faro puntato in viso. Anche il Buddha ha lasciato il “molto”, la ricchezza della reggia in cui viveva quale principe pronto a succedere nel governo del regno. E’ passato all’estremo opposto, dalla pienezza alla totale assenza, immergendosi in una povertà ascetica lasciando tutto tant’è che il suo corpo rasentò la morte.

La capacità di vivere la spiritualità nel quotidiano costituisce proprio quella via mediana che è l’essenza dell’insegnamento del Buddha. Si è accorto, retta visione – samaditthi,  che la più sublime spiritualità ha bisogno di convivere col quotidiano e che è propri lì che trova le “parole” per esprimersi. Ha visto dissolversi l’ombra del geloso possesso della ricchezza, la reggia in cui risiedeva, così ugualmente l’austerità più radicale, la povertà più radicale, un senso di colpa non rielaborato. Ha compreso la profondità di una virtù poco conosciuta e spesso travisata, il contentamento, capace di concimare il terreno di una feconda serenità d’animo, capace di volgersi con immediatezza a contemplare il colore del cielo e ad apprezzare l’odore della terra.

Vista dalla parte della convivenza nel quotidiano, la virtù del contentamento dà forma ad una amicizia capace di diffondersi nella sua più esaltante leggerezza. Non si trasforma in possesso, non viene imprigionata dal “io-mio”. Né invidie e gelosie possono accompagnarla. Il contentamento ci induce a rispecchiarci nelle cose e di leggere in questo riflesso qualcosa di più su noi stessi.

Se quello specchio lo voglio fare “mio”, devo vedere  che è proprio in quelle mani che prendono che si gettano al vento sia la mia indipendenza e libertà, sia il rispetto per l’altro che voglio “chiudere” nella “mia” sfera d’amore. Questo gesto fa riemergere tutte quelle propensioni latenti fatte di attaccamento e possessività che sfociano nel grande mare del non-senso dell’ignoranza, nell’opposto di samaditthi, nell’oceano del samsara.

La mia felicità consiste nel dare all’altro la sua, a crescere nella consapevolezza che la mia felicità non può essere soggetta al condizionamento altrui, consiste nel lasciar liberi gli altri di donarmi, di essere riconoscente di ciò che mi donano.  Di scorgere in loro quella luce che  non posso prendere nè far mia, che eppure è l’unica possibilità che ho per accendere la mia. Che mi perette di crescere alla responsabilità, di emergere all’umanità della mia natura.

Questo insegnamento il Buddha torna a riportarlo “a terra”, a diffonderlo nel nostro quotidiano. La pratica meditativa è un motore che conduce alla retta visione se riesce a rispecchiarsi nell’amico spirituale, se riesce a trovare vigore e zelo nell’ascolto del respiro, le parole indecifrabili dell’animo, scorgendo in queste l’unico varco verso una consapevolezza più matura. La pratica  non si risolve sulle sponde indefinite del rilassamento, serve sì a calmare la mente ma serve soprattutto a risvegliare la prontezza del cuore-mente a vivere l’esperienza meditativa stessa.

La capacità di scegliere ciò che è appropriato, ciò che alimenta la crescita confina sempre con l’incertezza della nostra esperienza interiore. Quando la presunzione si spegne, allora l’incertezza emerge e sarà proprio quest’ultima dimensione a  divenire, se colta e assaporata, il terreno più saldo della nostra pratica meditativa. Il meditante vive al cospetto di questa incertezza, sorretto dal cuore-fiducia, dalla comprensione che più “l’io che possiede” l’io-mio si consolida più si è prossimi a smarrire, ad affondare.

Si può galleggiare sull’incertezza se si acquisisce la qualità della leggerezza, l’attitudine ad avvolgere d’ironia le certezze delle proprie elaborazioni mentali, se si scorge, nel sorriso del cuore, la capacità di accogliere, ma anche di scegliere tra ciò che è appropriato e ciò che non lo è, di intraprendere il sentiero che conduce ad  apprezzare la bellezza di ciò che si sperimenta.

Il maestro Ajahn Chah, alla richiesta di che cosa fosse il buddhismo, rispondeva dicendo che consiste nel non aggrapparsi, nel vivere in armonia e contentezza il presente, le cose così come sono. Più il nostro cuore-mente è libero di scegliere, più riconosce e sa aggirare gli ostacoli. Si potrebbe concludere, spigolando tra queste riflessioni suggerite dall’insegnamento tenuto da Ajahn Mahapanyo ad Arezzo il 30 novembre 2013, che la più grande amica della crescita spirituale sia proprio l’incertezza. Al suo cospetto il sangue si raggela in un senso di timore-paura che innesca immediati tentativi di tamponarla a cominciare dal semplice “casomai ne avessi bisogno…” con cui cerchiamo di aggirarla, per lo più inconsapevolmente.

Per il monaco l’incertezza è la dimensione esistenziale per eccellenza. Ajahn Mahapanyo nel concludere il suo incontro ci accoglie nella sua pratica dicendoci con semplicità che l’essenza della sua pratica è il  quotidiano e costante vivere con l’incertezza, anzi questa diviene, per il monaco, un valore.

Nella catena di causa–effetto che con il karma tiene legato l’uomo al ciclo del samsara, in un divenire  che si risolve in un eterno ripetere, in cui la trama permane, pur cangiando le immagini, gli spettatori e i protagonisti, vi è qualcosa che sfugge all’attenzione. La pratica meditativa rende sensibili all’incertezza che rappresenta il punto debole di questa condizione esistenziale. L’incertezza è la via d’uscita dal samsara, è un infiacchimento della tensione karmica. E’ la dimensione che il monaco impara a contemplare nella totalità della sua esperienza e per viverla occorre sapersi fermare, poggiarsi sul ritmo del respiro, calmare la mente e lasciare andare l’identificazione con le suggestioni del divenire.

La conclusione di questo suo insegnamento non è altro che un possente stimolo a rivedere le motivazioni e il senso della nostra pratica meditativa. La terra salda della liberazione non appare più come una “cosa”, potrebbe esprimersi nell’acquisizione di una capacità, quella di veleggiare verso di essa sulle acque profonde e agitate del samsara.

Che la spiritualità possa galleggiare sulla mutevolezza del quotidiano.

Che l’incertezza possa nutrire  la nostra pratica meditativa.

Che il contentamento renda sicuro il nostro vascello.

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