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Sè, Volontà e Coscienza – Maria Luciana

SE’, Volontà e Coscienza

riflessioni di Maria Luciana Favorito

Per SE’ psicologico, si intende quella forza “originaria” e organismica  che promuove la nostra espansione, il nostro sviluppo personale, l’autocompimento e l’autorealizzazione individuale. Esso é una struttura psichica peculiare della specie umana. Oltre a contenere elementi evoluzionistici  e filogenetici, essa contiene anche elementi individuali innati che definiscono l’unicità dell’individuo. Per es. il suo temperamento e l’indole.

La coscienza,  dal punto di vista psichico (non neurofisiologico – cognitivo), é una emanazione,  un riflesso del SE’  di cui svolge la funzione operativa a diversi livelli,  sia conscio che inconscio, direzionando la  vita. E per fare questo, a livello conscio, si serve della volontà. La volontà é dunque uno strumento indiretto  del  SÉ che opera nel campo della conscienza, con la quale esso, attraverso una mirabile sintesi della realtà interna dell’individuo (in cui si muovono tutte le sue dimensioni: fisica, emotiva, intellettiva e spirituale, compresa quella  inconscia), dà significato e orienta la sua vita.

I modelli sociali e culturali delle società, sono attivi ed operano nel campo della coscienza degli individui, determinandone il proprio adattamento a stili di vita e a sistemi di valori  ritenuti validi. Il nostro modello sociale si serve proprio di questo processo di addomesticamento delle coscienze che vengono rese funzionali al sistema e conformi al pensiero  dominante, per disattivare la volontà.

 Attraverso modelli ideologici centrati sullo scambio economico, sul potere, i ruoli, e l’immagine, invece che sullo sviluppo delle persone, delle loro qualità e potenzialità,  si attiva e si sviluppa nelle persone la dipendenza ad acquisire e a “consumare” cose, stili di vita, servizi, valori, ed emozioni, generate all’esterno e ritenute indispensabili per vivere. Le persone sono condizionate a “ricevere” ciò di cui hanno bisogno, anziché “produrre” esse stesse, o impegnarsi nel creare le condizioni per ottenere ciò che desiderano.

Vengono educate ad apprezzare cio’ che si può acquisire dall’esterno e non ciò che esse stesse possono creare ed elaborare. Si dice loro che cosa pensare, che cosa amare, che cosa apprendere e conoscere, come  parlare, come vivere, che cosa desiderare, quando e come morire, se e come guarire, dove e come nascere.

 Il “centro” dell’esistenza si sposta così da dentro a fuori, e  questa proiezione del proprio “centro” all’esterno, condizionando le persone ad assumere continuamente  il punto di vista degli altri e i loro sistemi valoriali, rimuove gradualmente la percezione delle proprie risorse e  capacità. La volontà viene gradualmente rimossa dal campo della coscienza; essa non viene più esperita ed esercitata dagli individui nella sua interezza ed autenticità, disattivando così la capacità  di libero arbitrio, e l’indipendenza di pensiero e di giudizio.

 Una cultura che genera dipendenza é una cultura che inabilita gli individui, poiché limita la loro volontà e la capacità di autonomia, deresponsabilizzandoli  nei confronti di sé stessi e gli altri.

 Questo processo di reificazione e di rimozione della capacità di autonomia e autocompimento, porta gli individui ad una progressiva alienazione dal proprio sé, all’infelicità e alla nevrosi collettiva. Le persone sentono di non gestire più nulla di sè e della propria vita sempre più centrata su bisogni coattivi, in balia di eventi esterni, e che, per questo, si esprime ormai solo fuori da se stessi.

Una società basata sul profitto (merce) e il potere, e non sulle persone, é destinata a trasformare in merce anche la vita degli individui.

 L’implicazione drammatica di questo processo di proiezione e svuotamento del centro psichico, il cui equilibrio è legato all’integrità della volontà, risiede proprio nella totale rimozione della capacità di “autocoscienza” da parte degli individui, i quali vengono continuamente sollecitati dal modello culturale ad inibire la percezione della propria realtà interna, bloccando l’accesso alle  proprie risorse interiori, ai bisogni e alle proprie potenzialità.

La capacità di introspezione viene svalorizzata dal nostro contesto culturale ed educativo, che esercita una politica repressiva e di rimozione rispetto al concetto di “esperienza”come fenomeno cognitivo, poiché la ritiene impropriamente una qualità umana marginale e non essenziale.

Essa non viene infatti  riconosciuta in nessuno degli ambiti del sapere e della conoscenza, ma, anzi, delegittimata in nome del pensiero unico  analitico, che domina, e rappresenta il paradigma culturale  della società basata sulla merce e lo scambio economico.

 In realtà, l’attitudine introspettiva  costituisce  un’abilità “metacognitiva” dell’essere umano, cioè una capacità intellettiva superiore sviluppata durante l’arco di tutta la sua evoluzione, che esprime quella funzione neocorticale basilare, attraverso cui, egli, ha potuto  modulare la propria risposta di adattamento all’ambiente. Attraverso l’introspezione, infatti, l’essere umano perviene allo stato di “autocoscienza”, che costituisce una modalità superiore di conoscenza e di produzione del pensiero (pensiero analogico), poiché gli consente di essere “presente” e vigile a ciò che  esperisce.

 Questa “presenza” costituisce la connessione primaria con il centro di sé stessi, mediante il quale l’essere umano realizza una migliore e più profonda interazione con la realtà esterna; acquisisce la responsabilità di se stesso, delle  proprie emozioni, dei propri pensieri, delle proprie capacità di problem-solving, e delle proprie azioni; ed esercita la propria volontà, elevando la qualità e il benessere della propria vita.

M.L.F.

 

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