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Il tè all’assenzio – Ajahn Amaro

Ajahn AMARO il tè all’assenzio – tratto da insegnamenti  Santacittarama 

Avere metta per se stessi o per gli altri esseri non significa che ci piaccia ogni cosa.

Quando cerchiamo di farci piacere tutto, facciamo spesso fiasco, perché è il punto di partenza ad essere completamente sbagliato. Quando assaggiamo qualcosa di amaro e ci sforziamo di credere che sia dolce, questa altro non è che ipocrisia, inzuccherare le cose. Non funziona, anzi peggiora quello che è già amaro, rendendolo tremendamente nauseante e disgustoso.

Conservo un ricordo assai doloroso di una volta in cui molti anni fa, in Thailandia, cercai di soccorrere un altro novizio mio amico. Era francese, non capiva molto bene l’Inglese, ed era ancora meno esperto in fatto di erbe. Avevamo ricevuto un pacco dono dall’America contenente ogni sorta di tisane di diverse qualità; egli ne scelse una all’assenzio e volle prepararla per il tè pomeridiano del Sangha. Mi trovai a passare in cucina mentre la stava facendo: sembrava estremamente agitato e preoccupato. Gli chiesi quale fosse il problema, visto che sembrava essere davvero sconvolto. Lui rispose “E’ terribile. Il tè che sto faccendo per tutti, è assenzio. Non so cos’è, ma è orribile! E’ come una medicina disgustosa”. Al che replicai “Sì, è vero, è una disgustosa medicina, non un tè che si possa preparare come bevanda rinfrescante per tutti”. Essendo io convinto della mia genialità, certo di essere il non plus ultra tra i preparatori di tè, esclamai “Lascia fare a me, non preoccuparti. Tornatene al tuo kuti e riprenditi. Ci penserò io”. Così presi ad occuparmi della preparazione del tè. Provai ad aggiungere dello zucchero. Provai ad aggiungere del sale. Provai ad aggiungere un po’ di polvere di peperoncino. Provai a metterci qualunque cosa riuscissi a immaginarmi per migliorarlo. A quei tempi non c’era l’elettricità, quindi non potevo semplicemente gettare via tutto e ricominciare daccapo – su quei piccoli fuochi a carbone il solo riscaldare l’acqua richiedeva un tempo interminabile. Alla fine pensai “Va bene, dillo pubblicamente e rassegnati alla tua condanna”. Fu così che presi il bollitore con il tè, deciso a servirlo – così com’era – a tutto il Sangha, con una sensazione di non essere stato realmente io a prepararlo. Il mio povero amico, Jinavaro, che stava letteralmente tremando, se ne era andato al suo kuti per riaversi, e fu così che riflettei “Va bene, mi addosserò io la colpa. Effettivamente non sono riuscito a salvarlo questo tè, ma perlomeno lui non si prenderà il rimprovero” – pensai che mi stavo comportando assai nobilmente.

Era la stagione calda, e ce ne stavamo tutti a sedere all’aperto, sotto gli alberi. Offrii la teiera ai monaci, i quali incominciarono a versare il tè. Ci fu un prorompere di rimostranze ed imprecazioni non appena l’Ajahn e gli altri monaci anziani ne ebbero assaggiato un sorso. Sputacchiarono il preparato per terra nella foresta. Ajahn Pabhakaro, che a quel tempo era l’abate, mi si rivolse e proruppe: “Cos’è questo?!”. “Si chiama assenzio, Ajahn”. Ci fu un gran borbottare. Io credevo che i monaci dovessero mostrarsi grati per qualsiasi cosa ricevevano, ma, ad ogni modo, quella fu pure l’occasione in cui cominciai a credere nell’intervento divino. Ecco comparire, tra il disgusto e lo sgomento generale per la rivoltante bevanda, un piccolo pick-up, dal quale scese della gente che non avevamo mai visto prima d’allora. Aprirono la parte posteriore del furgone e tirarono fuori due cassette di Fanta e Pepsi con un grosso secchio di ghiaccio, ce le offrirono, rimontarono sul furgone, e ripartirono. Pensai “Chiunque ne sia il responsabile, magnifico, mi ha appena salvato la testa!”.

Da allora il gusto di quella bevanda estremamente amara e cattiva, ricolma di una tale quantità di zucchero che vi si sarebbe addirittura potuto tener ritto un cucchiaio, si è cristallizzato dentro di me, epitome di un miscuglio nauseante; questo è ciò cui somiglia il nostro sforzo di praticare metta cercando di farci piacere ogni cosa. Al contrario, ciò che si intende realmente con metta è un cuore che può accogliere tutto, che non dimora nell’avversione per le cose.

 

 

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