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Sala del silenzio, il trauma – Dialoghi dai luoghi di cura Careggi 4apr17

Il 4 aprile 2017 si è svolto all’Ospedale di Careggi, nell’ambito del progetto ”Dialoghi dai luoghi di cura”, un incontro su “Il Trauma” in una prospettiva interreligiosa. Tra le relazioni che sono state svolte ho trovato particolarmente stimolanti i temi trattati dal dott. Adriano Peris Direttore del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Careggi, da padre Guidalberto Bormolini dei “Ricostruttori nella preghiera” e da Nedda Dallago, psicoterapeuta e presidente Unione Induista Italiana.
Di seguito, prendendo spunto da queste relazioni, ho sviluppato delle mie rielaborazioni e riflessioni personali che qui riporto nella speranza che siamo di stimolo per la partecipazione ai prossimi incontri mensili che si protrarranno  fino a dicembre ’17.

Spazio Ospedale
La Sala del silenzio può essere un modo per far risuonare, attraverso la pluralità di voci ed esperienze, un cambiamento nello stato emotivo con cui il paziente vive la sua presenza in Ospedale.

Questo spazio ha l’intenzione di aggiungere qualcosa in più alla formazione specifica degli operatori impegnati nei diversi settori ospedalieri. Ovviamente bisogna considerare i fattori a priori che pesano e condizionano la funzionalità dell’Ospedale. Il suo compito è in primo luogo quello di prevenire ma per far questo occorrono fondi e spese. Questa Sala della preghiera interreligiosa e del silenzio rientra in una prospettiva che permette, con un investimento minimo, di fornire una possibilità per ora assente: quella di creare uno spazio per accogliere la propria sofferenza e di riflesso quella altrui al di là di qualsiasi contesto religioso specifico.

Questi, come altri progetti simili – si veda p.es. l’esperienza parallela de le Scotte a Siena – si fondano su una prospettiva di fiducia sia in se stessi, sia nel personale che a vario titolo vi opera, sia nella struttura ospedaliera stessa.

Imparare a trasformare
All’Ospedale viene richiesta professionalità e al contempo apertura, convivenza e uno sforzo particolare, lo sforzo di condivisione. Ovviamente non bisogna lasciarsi ingannare dalle formalità, non è detto che sia un sorriso a curare il malato, indubbiamente più intenso è il sorriso del cuore di quello sulle labbra, ma comunque svolge un ruolo di accoglienza.

Oggi si aprono in questa direzione una molteplicità di prospettive con una comune finalità, quella di saper affrontare l’imprevisto e in particolare la malattia e i suoi traumi. Verso la metà dell’Ottocento, nella lingua anglofona, riemergono gli studi sulla virtù dell’imperturbabilità. Si tratta di riuscire a coltivare un atteggiamo distaccato come viene espresso dallo stoicismo. Per vivere la malattia e i suoi traumi può essere di supporto una chiarezza, una visione chiara, della realtà “così come è” al di là di sviluppi che ci fanno ripiegare su noi stessi.

Un ulteriore passo può volgersi verso un testo ancora oggi di aiuto nell’affrontare la sofferenza: il Manuale di Epiteto (vissuto a metà del II sec. d.C). In questo testo Epiteto insegna a vivere il trauma, e più in generale, i traumi della vita, conoscendoli e trasformandoli. In particolare occorre apprendere come reagire ad essi.
Nel suo Manuale sottolinea la differenza tra “ciò che capita” e “la nostra rielaborazione mentale dell’evento”, p.es. in questo caso il trauma da un lato e i nostri timori-paure a proposito di tale evento. Non è in nostro potere modificare ciò che accade, nè sappiamo dei suoi sviluppi e delle esperienze che ne potranno derivare.

Non so il senso di ciò che mi accade, né quello della sofferenza, può essere una condanna come un’occasione per una trasformazione in positivo della nostra natura e ciò dipende da noi. Possiamo trasformare cioè la sofferenza in qualcosa d’altro. Spesso lo facciamo in senso negativo, ma possiamo vivere la malattia e la sofferenza in senso positivo trasformando la malattia come “condanna” nella malattia come “trasformazione” e, possiamo aggiunge – come fa Epiteto – della sofferenza in felicità: si sta aprendo una nuova prospettiva. Questa è la capacità di coltivare un pensiero aperto all’intuizione che “tutto va verso il bene” e quindi anche la malattia ed il trauma sono occasione per alimentare la meraviglia celata in ciò che accade.
La legge di responsabilità

Nel parlare di Induismo occorre tenere presente che le tradizioni, pur diverse che siamo, fanno riferimento ad un unico  sanatana dharma, una unica Legge universale in cui tutte si riconoscono.  Il Dio induista ha i molteplici volti con cui le diverse scuole lo chiamano eppure è un Dio senza forma,  Il Dio induista ha i molteplici volti con cui le diverse scuole lo chiamano eppure è un Dio senza forma, l’Uno che esprime i molteplici volti della nostra vera natura.   Non vi è separazione, vi è una assoluta amicizia e identità tra l’io e l’Uno. Il saluto namaste non è solo segno di fratellanza ma allude alla non-violenza, al reciproco rispetto, all’ahimsa: “Rendo omaggio al divino che è in te”.

Per comprende il mondo induista occorre fare riferimento ai principi etici che governano le relazioni reciproche (yama) e la relazione con me stesso (niyama). Lo yoga in Occidente si volge in particolare al corpo mentre in India il praticante accede a questa esperienza dopo un lungo servizio (seva) presso l’ashram. Si coltiva così il karma-yoga funzionale a purificarsi dall’egoismo. Il karma è un altro temine chiave; dà espressione alla legge di causa-effetto. Da un lato il futuro ci condiziona, sia esso condensato in un Dio o in una teoria scientifica, dall’altro il passato ci condiziona e in tal caso emergono fatalismo e superstizione: se sono malato, la causa della malattia è il mio karma, se lui è malato, la causa della sua malattia è il suo karma. Se è così ognuno è vittima del proprio karma e nessuno può intervenire a modificarlo, allora non vi spazio per l’aiuto. Il karma va inteso non in senso meccanico, dà espressione invece alla legge di responsabilità.

Il karma è indice di un errore cui posso rimediare, più che di una colpa che porto con me. Di rinascita in rinascita purifico il mio karma rimediando ai miei errori nei confronti della legge cosmica (rta) sino a giungere alla liberazione (mokhsa). La sofferenza nasce, si veda la Bhagavad Gita, allorchè smarrisco la mia identità con l’anima (atman) e mi identifico con il corpo che i saggi vedono come un vestito che cambio di nascita in rinascita.

Il trauma risiede nella separazione dall’atman. Proprio tale separazione è ignoranza, non-conoscenza, avidya, è egoismo, asmita. Il primo trauma scaturisce dall’identificazione con il proprio io, “io sono fatto così”. Questo irrigidimento su se stessi, questo attaccamento all’io, all’immagine che abbiamo di noi stessi, è fonte di dolore, ripetiamo gli stessi errori oggi e domani, e così di vita in vita. Il dolore nasce proprio allorchè l’anima si trova avviluppata da ciò che non è anima, che non è eterno. Questo è Il primo trauma da cui curarsi.

“Mia madre era malata e io soffrivo per lei, e solo allora vidi che non soffrivo per mia madre, ma per un essere umano, come ognuno di noi è”.

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