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Il trauma – riflessioni a margine di R. Savini – Dialogo dai luoghi di cura – Ospedale di Careggi FI

Ecco alcune riflessioni mie personali tratte dall’intervento di alcuni relatori presenti all’incontro di Careggi sul tema “Il Trauma” il 4 aprile ’17. Mi sono soffermato in particolare su tre interventi. Il primo concerne il ruolo dell’Ospedale nell’affrontare il tema del Trauma, pregevole a proposito  l’intervento del Dott. Adriano Peris, Direttore del reparto di Anestesia e Rianimazione dell’Ospedale Careggi di Firenze.  Un secondo, tenuto dal monaco cattolico Giudalberto Bormolini  – ideatore dell’Associazione  “Tutto è vita”, mi ha colpito per la prospettiva capovolta rispetto alla prima. qui viene messo in primo piano il ‘malato’ e il suo modo i rapportarsi alla malattia.  Il terzo intervento è stato tenuto da Nedda Dallago, Presidente dell’Unione Induista Italiana, mi ha stimolato per l’apertura alle diverse tradizioni induiste cogliendone un fattore unificante.

Il ruolo dell’Ospedale.

La Sala di preghiera laica e interreligiosa dell’Ospedale di Careggi (FI) può essere un luogo in cui far risuonare, attraverso la pluralità di voci ed esperienze, un cambiamento nello stato emotivo con cui il paziente vive la sua presenza in Ospedale. Con questo spazio si ha intenzione di aggiungere qualcosa in più alla formazione specifica degli operatori nei diversi settori ospedalieri. Ovviamente bisogna considerare i fattori a priori che pesano e condizionano la funzionalità dell’Ospedale. Il suo compito è quello di prevenire le esigenze che si rendono presenti ma per far questo occorrono fondi e spese. Questa Sala della preghiera interreligiosa e del silenzio rientra in una prospettiva che permette, con un investimento minimo, di fornire una possibilità per ora assente: quella di creare uno spazio per accogliere la propria sofferenza e di riflesso quella altrui, al di là di qualsiasi contesto religioso specifico. Questi, come altri progetti simili – si veda p.es. l’esperienza parallela delle Scotte a Siena – si fondano su una prospettiva di fiducia sia in se stessi, sia nel personale che a vario titolo vi opera, sia nella struttura ospedaliera stessa.

Il ruolo del malato

All’Ospedale viene richiesta professionalità e al contempo apertura, uno sforzo particolare, lo sforzo della condivisione. Ovviamente non bisogna lasciarsi ingannare dalle formalità, non è detto che sia un sorriso a curare il malato, indubbiamente più intenso è il sorriso del cuore di quello sulle labbra. Oggi si aprono in questa direzione una molteplicità di prospettive pur con una comune finalità, quella di saper affrontare l’imprevisto e in particolare la malattia e i suoi traumi. Fra’ Bormolini fa riferimento ad un atteggiamento, già delineatosi verso la metà dell’Ottocento, che coltiva la virtù dell’imperturbabilità. Si tratta di riuscire a coltivare un atteggiamo distaccato come viene espresso dallo stoicismo. Per vivere la malattia e i suoi traumi può essere di supporto una visione chiara della realtà così “come è”, al di là di quegli sviluppi che ci fanno ripiegare su noi stessi. Ci aiuta a fare un ulteriore passo il testo ancora oggi di aiuto nell’affrontare la sofferenza: il Manuale di Epiteto (vissuto a metà del II sec. d.C). In questo testo Epiteto insegna a vivere il trauma e, più in generale, i traumi della vita, conoscendoli e trasformandoli. In particolare occorre apprendere come reagire ad essi. Nel suo Manuale sottolinea la differenza tra “ciò che capita” e “ciò che ne pensiamo” , p.es. in questo caso il trauma da un lato e i nostri timori-paure a proposito. Non è in nostro potere modificare ciò che accade, né sappiamo dei suoi sviluppi e delle esperienze che ne potranno derivare. Non saper dare un senso a ciò che mi accade (e in particolare della sofferenza) può essere una condanna come pure un’occasione per una trasformazione in positivo la nostra natura: e ciò dipende da noi. Possiamo trasformare cioè la sofferenza in qualcosa d’altro. Spesso lo facciamo in senso negativo, ma possiamo vivere la malattia e la sofferenza in senso positivo. La malattia come “condanna” può divenire occasione di “trasformazione” e, possiamo aggiungere – come fa Epiteto – della sofferenza in felicità: la malattia sta aprendoci una nuova prospettiva. È la capacità di coltivare un pensiero aperto all’intuizione che “tutto va verso il bene” e quindi anche la malattia ed il trauma sono occasione per alimentare la meraviglia celata in ciò che la vita ci offre.

 

 La visione induista

 Nel  parlarel’Induismo occorre tenere presente che le tradizioni, pur diverse che siamo, fanno riferimento ad un unico sanatana dharma, una unica Legge universale cui tutte le tradizioni si rifanno. Il Dio induista ha i molteplici volti con cui le diverse scuole lo chiamano eppure è un Dio senza forma, l’Uno che esprime i molteplici volti della nostra vera natura. Non vi è separazione, vi è una assoluta amicizia e identità tra l’io e l’Uno. Il saluto namaste non è solo segno di fratellanza ma allude alla non-violenza, al reciproco rispetto, all’ahimsa: “Rendo omaggio al divino che è in te”. Per il mondo induista occorre fare riferimento ai principi etici che governano le relazioni reciproche (yama) e la relazione con me stesso (niyama). Lo yoga in Occidente si volge in particolare al corpo mentre in India il praticante accede a questa esperienza dopo un lungo servizio (seva) presso l’ashram. Si coltiva così il karma-yoga funzionale a purificarsi dall’egoismo. Il karma è un altro temine chiave; dà espressione alla legge di causa-effetto. Da un lato il futuro ci condiziona, sia esso condensato in un Dio o in una teoria scientifica, dall’altro il passato ci condiziona anch’esso e in tal caso emergono fatalismo e superstizione: se sono malato, la causa della malattia è il mio karma, se lui è malato, la causa della sua malattia è il suo karma. Se è così ognuno è vittima del proprio karma e nessuno può intervenire a modificarlo, allora non vi spazio per l’aiuto. Il karma va inteso non in senso meccanico, dà espressione invece alla legge di responsabilità. Il karma è indice di un errore cui posso rimediare, più che di una colpa che porto con me. Di rinascita in rinascita purifico il mio karma rimediando ai miei errori nei confronti della legge cosmica (rta) sino a giungere alla liberazione (mokhsa). La sofferenza nasce, si veda la Bhagavad Gita, allorché smarrisco la mia identità con l’anima (atman) e mi identifico con il corpo che i saggi vedono come un vestito che cambio di nascita in rinascita. Il trauma risiede nella separazione dall’atman. Proprio tale separazione è ignoranza, non-conoscenza, avidya, è egoismo, asmita. Il primo trauma scaturisce dall’identificazione con il proprio io, “io sono fatto così”. Questo irrigidimento su se stessi, questo attaccamento all’io, all’immagine che abbiamo di noi stessi, è fonte di dolore, ripetiamo gli stessi errori oggi e domani, e così di vita in vita. Il dolore nasce proprio allorchè l’anima si trova avviluppata da ciò che non è anima, che non è eterno. Questo è Il primo trauma da cui curarsi. “Mia madre era malata e io soffrivo per lei, e solo allora vidi che non soffrivo per mia madre, ma per un essere umano, come ognuno di noi è”.

 

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