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La morte, Dialoghi nei luoghi di cura a Careggi – Firenze

L’incontro, svoltosi all’Ospedale di Careggi (FI), su Dialoghi nei luoghi di cura in questo mese di novembre ’17 si è rivolto al tema della MORTE. Come vedremo poi, nelle riflessioni tratte dall’incontro, è questo argomento difficile da investigare date le resistenze emotive che insorgono. Che queste siano frutto di un particolare orientamento culturale ne è la prova il fatto che questi atteggiamenti sono ben diversi da Paese a Paese, da cultura a cultura, dall’oggi al tempo passato. Le presenti riflessioni prendono spunto dalle relazioni del Dottor Raffaello De Gaudio,  Direttore del Dipartimento di Anestesia e Rianimazione, del Monaco Guidalberto Bormolini, antropologo ed esperto in Cure palliative e Marco Mancini rappresentante dell’Unione Buddhista Italiana. Ringrazio tali Relatori per la capacità dimostrata nel coinvolgerci. Di ogni fraintendimento nelle rielaborazioni qui riportate e nei titoli mutati è responsabile il sottoscritto. Rodolfo Savini

 

Terapie intensive di fronte al fine vita

La terapia intensiva interviene allorché si presenta un’alta propensione alla mortalità. Oggi si tende a rimuovere, nel nostro  Paese, la parola “morte” per sostituirla con quella più morbida di “fine vita”.

In una grande percentuale di casi si preferisce morire a casa propria, ovviamente laddove vi sia una famiglia di sostegno. Oggi sono molte le persone sole e quindi si presentano nuove modalità nel morire, sono frequenti i fenomeni  di depressione. Prevale, in più casi, la morte medicalizzata in cui si interviene, per esempio, con strumenti extracorporei messi a disposizione dalla moderna tecnologia. Si tratta di  un accanimento terapeutico, di una sopravvivenza a tutti i costi, anche in senso materiale – un letto in corsia costa 3000 euro al giorno.

L’interazione con cure palliative può sostenere o sostituirsi alla terapia intensiva allorché si tratti in prevalenza di lenire il dolore ma assai frequentemente interagiscono con le loro specificità, da un lato lenire il dolore, dall’altro prolungare la vita.

Si fa sempre più evidente l’esigenza di rispettare la dimensione umana, sentire che ci si trova al cospetto una persona. Oggi si tende a coinvolgere attivamente il malato e i familiari nelle decisioni che concernono le modalità terapeutiche. Rispetto ad altri Paesi europei, quali ad esempio Inghilterra e Belgio, in cui la questione “morte” viene accolta nel quotidiano, in altri Paesi, quale il nostro, la dimensione “morte” viene rimossa. Questa condizione marginalizza questa dimensione esistenziale demandando al singolo di farsene carico.

 

Dal tabù della morte al saperla vivere

La società di oggi tende a rimuovere l’evento “morte”, in più contesti però – qui si fa riferimento in particolare agli stimoli provenienti da un passato dimenticato e riscoperto o dall’incontro con culture diverse da quella Occidentale – parlare della morte, contemplare la morte, erano e sono aspetti essenziali per dare un senso all’esistenza.

Occorre scoprire la propria vulnerabilità, la propria finitudine. Un superficiale “sentirsi eterni”, negando l’esperienza della morte ne aumenta il potenziale di sofferenza che porta con sè. Apprezzare la vita apre ad un livello etico più elevato e pervaso da una compassione che si riverbera su di sè e sugli altri.

Questo impegno a dar senso alla vita richiedere una intensa osservazione e attenzione, qualità che vanno coltivate prima di trovarsi al cospetto della morte. Il “fine vita” va preceduto da un riflessione della morte, da un farla divenire nostra compagna nel quotidiano. Nel chiederci: “Se morissi oggi sarei contento?” si sottolinea l’importanza di ricordarsi della morte come un valore che dà senso. La crisi economica, sociale ed esistenziale dei nostri giorni si pone a confronto con l’emergere di una società pluriculturale frutto dell’incontro con una molteplicità umana, culturale e spirituale e proprio quest’ultima prospettiva offre l’opportunità di acquisire una visione più ampia superando gli schematismi e i pregiudizi.

La dimensione spirituale è implicita in ogni religione ed è libera nel suo nascere da ogni concezione filosofica e sociale. È un impulso che nasce p.es. dal contatto con la natura che, attraverso un linguaggio analogico (sole/luna, terra/cielo ecc.), permette di rendere visibile la dimensione spirituale dell’esistere. In un lontano passato emergeva già la coscienza che nella nascita è già implicita la morte o che nel vivere l’uomo ha il compito di prepararsi a morire. Nella filosofia greca e romana l’uomo ha il compito di anticipare, già da ora, una riflessione sulla morte e sulla consapevolezza del tempo limitato della nostra esistenza. All’inizio del ‘700 il vescovo Alfonso de’Liguori diceva che spetta all’uomo “preparare la barca prima della tempesta”.

Già nei primordi e nelle religioni dei ‘primitivi’ emergeva la concezione della morte come rito di iniziazione e di passaggio da una condizione ad un’altra. Il giovane acquistava così la capacità di un agire sociale e religioso. Una pratica diffusa era ed è, come detto, quella di vivere la morte prima di morire. In più religioni vi è, p. es., la pratica di contemplarsi come scheletro o di meditare visualizzando uno scheletro. Nel buddhismo una pratica di meditazione si sviluppa proprio sul progressivo deteriorarsi di un cadavere, vedi Il Sutra sui “Quattro fondamenti della presenza mentale”, al fine di assimilare il carattere impermanente del corpo. All’Eremo di Camaldoli nel 2013 è stata inaugurata la “Porta Speciosa”, “Porta Bella”, dove, tra i diversi simboli, vi è proprio un teschio. Nello yoga la meditazione al cimitero ha un ruolo importante della formazione del praticante. Tutt’oggi a Praga vi è la proposta di fare veramente del cimitero un luogo pubblico in cui fare yoga o ritrovarsi nel riflettere.

 

Meditazione prima e durante il processo della morte nell’esperienza buddhista

La morte viene vista come uno stadio intermedio tra la vita passata e la rinascita futura: lo stadio del bardo, quello in cui la coscienza viene separata dal corpo prima di rinascere. È uno stato simile al sogno in cui la mente è in grado di muoversi, per un massimo di 49 giorni, senza alcun ostacolo.  Usualmente, in forza degli attaccamenti e delle avversioni, è uno stato di sofferenza. La coscienza, mossa dal karma delle vite precedenti e di quella appena lasciata, fluttua in cerca di una nuova rinascita in diversi reami.

Già ora, in questa vita, non si può sottacere o escludere la morte dalla vita, come se non esistesse. Da un altro punto di vista la morte deve già ora entrare nel panorama della nostra esistenza attuale. È un evento che accompagna ogni momento.

La morte riveste una particolare sacralità, è un momento di connessione, meglio di integrazione spirituale. Il morente ci insegna la nostra morte. Questa dimensione richiede una particolare sensibilità. È facile che emergano, in particolare tra i familiari e i conoscenti, atteggiamenti rassicuranti fondati sulla loro non-accettazione della morte, ma è altrettanto possibile che in quei momenti il morente venga incoraggiato, con uno stato d’animo compassionevole, ”sta andando tutto bene” tale da sostenere il morente con una benevolenza aperta verso di lui, verso di noi e verso un orizzonte via via più vasto.

Il morire è spesso velato dal rimpianto, da un senso di grande perdita nei confronti di una vita spesa senza essere riuscito a coglierne il messaggio e a scioglierne i nodi. Ci si può trovare sospinti verso una chiusura, una non-accettazione, da cui il dolore diviene vera e propria angoscia che cattura tutto e in particolare l’area affittiva che lo circonda.

La pratica buddhista si dedica in particolare ad “addestrarci” a morire. La morte ci apre ad un interrogativo: perché questo? Non ci crediamo, siamo abituati a vedere ogni cosa come permanente, non vediamo la morte. Alle certezze contingenti dell’io si presentano e le sgretolano delle certezze indiscutibili. Il nostro respiro va e viene, tutti prima di noi sono morti, dai parenti a noi vicini fino ai grandi Santi e ai fondatori delle religioni stesse come Gesù e il Buddha. Inoltre ogni espiro ci avvicina alla morte.

Queste riflessioni ci sono di sostegno per una visione saggia della vita, ma, nonostante queste, siamo immersi in molteplici e inespresse contraddizioni. Come darsi ragione della morte di un bimbo al cospetto di un vecchio che continua a vivere, della morte improvvisa di una persona sana e  di un malato che vive a lungo. La casa ci protegge ma un terremoto la può ledere, una medicina ci cura ma può anche nuocerci. Non vi sono certezze, tutto è vulnerabile, impermalente. Nulla ci dice che all’espiro debba necessariamente seguire un inspiro.

Condotti da queste riflessioni ci rendiamo conto di come ora ci serva un sostegno. Da questo punto di vista le ricchezze, le comodità ecc. non ci aiutano, gli affetti producono attaccamenti e avversioni, gelosie e incomprensioni, il corpo diviene sempre più un impedimento e un peso.

Davanti a queste considerazioni occorre apprendere a non reagire cioè ad assumere nell’intimo un atteggiamento neutrale capace di osservare queste propensioni. In questo istante, nel  qui ed ora, indubbiamente sono vivo e dispongo dei preziosi strumenti del corpo e della mente. Sta a me apprendere ad usarli bene per crearvi attorno una spaziosità che permetta di vedere e riconoscere la natura dei diversi accadimenti e sopratutto saper volgere questo impegno verso noi stessi come una virtù da dedicare agli altri, da donare agli altri. Si può apprendere molto dalla morte e questo può essere l’impegno di tutta una vita.

Nel Buddhismo tibetano questo impegno si esprime in una ampia rete di esperienze di meditazione che ci possono accompagnare, con specifiche visualizzazioni, già da ora a vivere consapevolmente il  momento della morte, la strada del bardo, quella condizione intermedia tra morte e rinascita.

Con la morte vi sarà un generale riassorbimento dei diversi fattori che compongono il nostro corpo-mente e di quelli dello spazio-tempo in cui si vive attualmente. Questi vincoli residuali verranno bruciati in ogni chakra, in ogni ruota in cui è raccolta la nostra memoria profonda.

 

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