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Il Lutto, appunti&riflessioni a margine dell’incontro su “Dialogo nei luoghi di cura” Careggi dicembre 2017

Nell’incontro si è sviluppato il tema del Lutto. Qui riporto le riflessioni da me sviluppate a partire dagli stimoli emersi, in primo luogo, dall’intervento del monaco buddhista Ven. Bhante Dhammasila del Samadhi Vihara su Buddhismo e compassione. Di seguito ho inserito il dialogo del Buddha con Kisagotami che ha perso il figlio di un anno. Questo dialogo ben affronta il tema del Lutto  nel buddhismo, in evidenza ho posto proprio una immagine del colloquio tratta da path.homestead.com/kisagotami. In secondo luogo, discostandomi dall’ordine degli interventi, vi saranno gli spunti di riflessione rielaborati sul tema “Relazione con i familiari” della Dott.ssa Maria Luisa Migliaccio, quelli sul tema dei “Riti di passaggio” presentato da p. Guidalberto Bormolini e infine su alcuni precetti ebraici relativi al lutto e alla sepoltura del Rabbino della Comunità Ebraica di  Firenze in sostituzione di Joseph Levi. Rodolfo

Buddhismo e compassione

Nel Buddhismo non vi è un “credo”, Buddha invita a fare una esperienza diretta dei suoi assunti. Per comprendere la prospettiva  buddhista sul lutto occorre inquadrare il tema nel contesto dell’insegnamento del Buddha.

Nel Parco dei Daini a Varanasi il Buddha mise in movimento la “Ruota del Dharma”, esponendo cioè ai suoi cinque amici di un tempo le Quattro Nobili Verità che costituiscono l’asse portante del Buddhismo. Questo insegnamento si rivolge a chi ha solo “poca polvere sugli occhi”.

L’insegnamento è una guida per uscire dal buio dell’ignoranza e per volgersi verso la verità ultima. La verità relativa è, p.es., il tavolo davanti a noi, mentre la verità ultima consiste nel vedere che ciò che chiamiamo “tavolo” non è altro che un insieme di legno, scalpello, colla, falegname, ecc. Nella nostra visione superficiale diamo per scontato che ci sia un qualcosa  che sia un “tavolo” ma ad una visione più profonda ogni cosa è composta da una molteplicità infinita di elementi.

Nulla cioè ha una sua natura propria ma tutto è interdipendente. Nulla cioè ha una esistenza intrinseca, ma tutto dipende da tutto, cioè tutto è interdipendente, anicca, tutto è privo di un sè autonomo, anatta. Così è anche per l’uomo. Il nostro corpo è un insieme di organi, a loro volta composti da innumerevoli parti. Così è anche per i nostri “io”, sono anch’essi un composto di diversi aggregati, corpo, sensazioni, percezioni, impulsi e coscienza.

Con ciò che chiamiamo “io” (o “sè” o “ego”) si ritiene invece qualcosa di stabile, eterno, immutabile. Quell’io permanente che ritengo di essere è in realtà un non-sè, un realtà impermanente. Da qui la concezione di anicca, dell’impermanenza.

Ritenendomi immutabile ed eterno è logico che entrerò in conflitto con la realtà che ha caratteristiche diametralmente opposto. È questa la fonte dell’insoddisfazione e del dolore, e soprattutto del tempo, un quotidiano in cui siamo sempre insoddisfatti perché ci sfugge di mano, è un eterno divenire.

Il senso profondo dell’io è quello di essere un mezzo per sperimentare la sofferenza del divenire e per sperimentare la quiete del qui ed ora. Allorchè la coscienza si risveglia via via ad una comprensione più profonda, il mezzo perde consistenza, l’io egoico si dissolve nella consapevolezza dell’eterno fluire del samsara. Il nostro io invece non fa altro che alimentare questo flusso, spesso irrequieto, spesso stagnante, ponendo in atto delle azioni che producono un effetto e ancora degli effetti che condizionano le azioni.

Solo accorgendoci (consapevolezza) del volgersi eterno della ruota del samsara si possono porre in atto quei semi insiti nelle Quattro Nobili Verità. Nel Buddhismo la morte rientra in questo procedere inesorabile del samsara, di nascite in rinascite, in diverse condizioni di esistenza dalle più luminose alle più oscure finché non si accende la miccia della consapevolezza.

L’esperienza buddhista della morte e del lutto si risolve appunto nella presa di coscienza, con la mente e con il cuore, della identificazione egoica con desiderio e attaccamento e, come detto, con i loro effetti, con l’insoddisfazione, con il disagio, l’incomprensione, la sofferenza, il dolore. Può capitare al praticante di ritirarsi a meditare presso un cimitero, laddove contempla la fragilità e l’inconsistenza dell’io egoico fino alla radice del suo corpo ridotto via via ad un mucchio di ossa, sino a dissolversi in polvere.

Il buddhista aspira per allusione ad essere come una “madre che protegge suo figlio il suo unico figlio” affinché “si abbia cura di ogni esseri, in alto verso il cielo, in basso verso gli abissi, in ogni luogo, senza limitazioni”. Ecco che più la pratica ci rende sensibili al dolore che accompagna ogni vivente più cresce l’anelito a diffondere le grandi virtù della benevolenza e della compassione.

Il lutto, proprio al continuo divenire del samsara, diviene la gioia compartecipe di sostenere tutti gli esseri in questo cammino verso la retta visione, un primo passo verso il nirvana, il senza-morte, come espresso da Buddha stesso nel Terza Nobile Verità.

 

Il dialogo del Buddha con Kisagotami  

All’epoca del Buddha, a una donna di nome Kisagotami morì l’unico figlio. Incapace di accettare la perdita, Kisagotami consultò innumerevoli persone per trovare una medicina che riportasse in vita il ragazzo. Si diceva che il Buddha possedesse il miracoloso rimedio.

La donna allora andò da lui, gli rese omaggio e domandò: “Hai un medicamento che riporti in vita mio figlio?”
“Ne conosco uno”, rispose il Buddha, “ma per prepararlo devo avere determinati ingredienti.”
Sollevata, Kisagotami chiese: “Di quali ingredienti hai bisogno?”
“Portami un pugno di senape”, rispose lui.

La donna promise di procurarglieli, ma prima che se ne andasse il Buddha aggiunse: “Bisogna che i semi di senape siano prelevati da una famiglia in cui non siano morti né figli, né coniugi, né genitori, né servitori”.

Lei annuì e andò di casa in casa alla ricerca di quanto richiesto. Dappertutto la gente si mostrò disposta a darle i semi, ma quando Kisagotami si informò sugli eventuali lutti, non trovò alcuna casa a cui la morte non avesse fatto visita: in una era deceduta una figlia, in un’altra un domestico, in altre ancora il marito o un genitore.

La donna non rinvenne una sola famiglia risparmiata dalla sofferenza della morte. Vedendo che non era sola nel suo dolore, depose il corpo esanime del figlio e tornò dal Buddha, il quale disse con grande compassione: “Credevi di essere l’unica ad avere perso un figlio, ma la legge della morte è che in nessuna creatura vivente vi è permanenza”.

(tratto da “L’arte della felicità”– Dalai Lama con H.C. Cutler)

 

La relazione di aiuto

Nella relazione di aiuto da un lato vi è il malato, con la grande sofferenza che lo inabita e dall’altro l’operatore sanitario. Entrambi interagiscono con i familiari che costituisce un terzo polo.

 All’operatore sanitario è richiesta l’abilità a sviluppare queste relazioni. Oggi, alle competenze professionali e psicologiche, si aggiunge anche una sensibilità aperta alle componenti culturali di riferimento del malato e dei suoi familiari. Al medico che lo segue è richiesta inoltre la pazienza e il tempo necessari a stabilire un dialogo e l’abilità a cogliere, senza pregiudizi, i diversi segnali che insorgono.

Il morire in Ospedale, in un Reparto di Rianimazione, crea necessariamente delle difficoltà ulteriori. Il personale sanitario si può trovare nella difficile condizione di urgenza in bilico tra la rianimazione e la cura del fine vita. In quest’ultimo caso vi è la necessità di avvicinare i familiari per la donazione di organi. Affinché ciò avvenga occorre la necessaria pacatezza, i familiari devono sentirsi accolti.

Manca comunque un supporto a distanza da parte dell’Ospedale sia nei confronti dei familiari sia del malato. Si avverte la necessità di umanizzare le cure nel rispetto della dignità di ogni soggetto, alimentando una dialogo e una comunicazione che siano di supporto a chiudere il cerchio della degenza, sia nel senso di un ritorno alla vita, sia nel senso dell’approssimarsi alla morte.

 

Riti di passaggio

Il lutto rientra tra i riti di passaggio, si abbandona qualcosa in vista di altro. Questo già accade laddove vi siano dei riti di passaggio relativi, p.es., alla nascita, al conseguimento dell’età adulta, al matrimonio, sino alla morte.

Quest’ultimo rito assolve alla necessità di definire i confini tra queste due condizioni, la vita e la morte. Hanno luogo, in particolare presso gli Antichi, dei particolari riti di sepoltura che sono un  “segno” di questo passaggio, di un definitivo allontanamento dalla società. Nell’antichità raramente si ricorreva alla cremazione.

Oggi vi sono dei riti di passaggio anche per i laici. In Paesi quali l’Inghilterra il tema della morte viene affrontato con maggior serenità rispetto al nostro Paese, laddove la morte viene quasi esclusa dal vocabolario, diviene un fatto privato.

Il culto dei morti ha una diffusione universale e usualmente prevede una sepoltura che presagisca una “sopravvivenza” del morto in una nuova vita invisibile.

Accanto ai diversi tipi di sepoltura, nella tomba – tornando all’antichità – venivano posti sia del cibo per sostenerlo nel suo viaggio, sia degli attrezzi da lavoro che usava in vita. Si tratta di un aiuto che i viventi fanno al morto.

Tra i cristiani assolve a questo ruolo la preghiera.

Le anime non curate da specifici riti sono viste come un “pericolo” per i viventi e l’accompagnamento è presente anche in aree geografiche lontane. Tra i Celti vi era l’annunzio a tutti dell’avvenimento, anche agli animali propri del defunto. Oggi si tende ad ignorare il lutto e si stanno perdendo le tracce anche della veglia funebre. Fino a metà del secolo passato ancora vivevamo dei riti di accompagnamento che duravano un anno.

 

Ebraismo, alcuni precetti su lutto e sepoltura

Nella tradizione ebraica il lutto prevede una serie di momenti rituali specifici nel primo mese che poi proseguono con ritmi diversi per ulteriori undici mesi. Qui si riportano alcuni momenti di questo complesso rito funebre.

Al morto vengono chiusi gli occhi e il suo corpo disteso a terra (“terra sei e terra tornerai”). Per questi riti non è richiesta la presenza di un rabbino. Dopo un lavaggio rituale il morto viene coperto da un lenzuolo bianco che non lo renda più visibile e disposto con i piedi verso l’uscita della stanza. A terra si dispongo quattro candele.

La sepoltura prevede l’inumazione a terra ed è rapida e deve avvenire tra le 14-24 ore dal decesso. Al cimitero vengono recitate delle preghiere dal conduttore della cerimonia. Si fanno sette giri intorno al catafalco con l’intento di separare il morto dai vivi. I parenti  gettano una manciata di terra sulla cassa che viene poi coperta di terra. Il figlio, o chi per esso, si taglia un lembo del vestito sul lato destro.

Nella preghiera, ad opera di dieci maschi, viene esaltato il Creatore quale “Giudice di verità”. Durante i sette giorni di lutto che seguono, la famiglia del morto deve stare a casa. È questo un momento assai significativo per la Comunità. I parenti e gli amici, anche da lontano, vengono a casa del defunto per recitare preghiere e portano cibo. È un intenso momento di condivisione.

Ulteriori cerimonie si svolgono durante il primo mese e poi altre ancora per undici mesi.

 

 

 

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