Sul morire: il Buddha e Gesù, un confronto nella riflessione di De Lorenzo
dall’Introduzione a Gli ultimi giorni di Gotamo Buddho Giuseppe De Lorenzo – Ediz. Laterza
Questo suttam è forse l’unico, in tutta l’immensa letteratura buddhista, in cui scorra una vena di commozione personale, ma anche perchè esso offre materia di paragone con un altro grande evento della storia etico-religiosa dell’umanità: ossia con la narrazione, contenuta negli Evangeli, degli ultimi giorni di Gesà Cristo.
Il paragone tra l’estinzione di Gotamo e la settimana di passione e di morte di Gesù, mostra a colpo d’occhio quali siano le coincidenze interiori e le differenze esteriori tra le due sole dottrine di redenzione, che abbia l’umanità (1).
Buddho, partendo dalle concezioni vediche e postvediche panteiste, giunse ad una dottrina ateista di rinunzia al mondo, di abnegazione di se stesso e di amore e compassione universale per tutti gli esseri viventi. Cristo, fondandosi sul monoteismo del Vecchio Testamento, ascese similmente alla dottrina della mortificazione, della rinunzia e dell’amore e della carità per i fratelli uomini, figli di Dio.
Ma gli ambienti, nei quali i due Redentori svolsero le loro dottrine, erano molto diversi gli uni dagli altri e ne determinarono le due fini diverse. La tolleranza indoeuropea dei brahmani della valle del Gange, mantenutasi inalterata fino ad oggi per oltre tremila anni, permise il libero svolgimento dell’ insegnamento di Buddho e dei suoi seguaci; mentre l’intolleranza semitica dei farisei della valle del Giordano e le interferenze politiche portarono alle persecuzioni di Cristo e dei suoi discepoli.
Quando i due Salvatori, l’uno ottantenne, l’altro appena trentatreenne, sentirono l’approssimarsi della loro fine, scelsero deliberatamente le sedi della loro morte: il primo avviandosi dal sacro Gange verso la sua terra nativa, alle falde del Himalaya; l’altro dirigendosi a Gerusalemme, città del Tempio, la sacra sede della razzia ebraica. Ma quanto diverse furono le vicende e le chiuse dei due cammini!
L’ascensione di Gotamo verso le eccelse montagne nevose, lungo i grandi fiumi, attraverso le dense foreste, è tutta un’apoteosi della natura; in cui gli uomini, gli animali, le piante, le pietre, le nubi, i venti, i cieli e gli astri fanno a gara per onorare ed adorare il grande Savio che si estingne; finché il suo cadavere è arso con rito eroico sul rogo e le sue ceneri sono distribuite, perché su esse sorgano monumenti a memoria per i posteri (2).
Invece il viaggio di Gesù si svolge in un’atmosfera selvaggia di odio e di rancore, in un’arida terra, tra i suoi tragici presentimenti e patimenti tra il tradimento di Giuda ed il rinnegamento di Pietro, tra il bieco furore del popolo, aizzato dalla sinagoga, e la scettica equanimità del proconsole romano, fino all’orrendo supplizio della croce, che finalmente libera lo spirito del Redentore! (2)
Come le circostanze della passione e della morte di Cristo sono diverse da quelle dell’estinzione di Buddho, così ne è profondamente diversa la forma della loro narrazione.
In tutto il Nuovo Testamento, se se ne toglie il Sermone della montagna, come in tutto il Vecchio Testamento, se se ne eccettua l’Ecclesiaste, vibra sempre possente la passione dell’anima semitica, che ha pur essa la sua bellezza e che ha trovato massima espressione, nel cristianesimo, nell’immagine dolente e sanguinante del Crocefisso.
Nella narrazione buddhista, invece, manca ogni passione. La prosa buddhista (3) ha la sua immagine plastica nelle statue del Buddho, sedute, sorridenti e serene esprimenti una visione interiore completamente distaccata dal mondo. Questa indiflerente serenità si ritrova in grande parte della letteratura ariana, indiana, ed è uno dei tratti fondamentali dello spirito indoeuropeo.
Chiudo questa introduzione, dichiarando il motivo, che mi ha mosso a fare il presente lavoro. Giunto al mio al 77º anno di età, in quest’era così tragica dell’umanità sulla terra, ho voluto sollevare il mio spirito nella visione degli ultimi giorni del Maestro della Dottrina, la quale è stata per più di cinquant’anni il conforto della mia vita e sarà, mi auguro, la consolazione della mia morte.
Napoli, 24 aprile 1948
Giuseppe De Lorenzo
(1) Le coincidenze interiori, già segnalate da Schopenhauer, e le differenze esteriori, proclamate da Nietzsche, tra le due sole dottrine di redenzione, che abbia l’umanità.
(2) Più che alla fine di Cristo, quindi, l’estinzione di Buddho si puó paragonare alla morte di Socrate, qual’è descritta nel Fedone di Platone; ma, più ancora, al transito di san Francesco d’Assisí, qual è esposto nelle due Legendae di fra Tommaso da Celano ed in quelle di san Bonaventura; nelle quali si trovano parole e sitazioni quasi eguali a quelle del nostro testo buddhista.
(3) Ne offrono, anche in campo profano, un esempio: i Commentari di Giulio Cesare, lucide ed indifferenti narrazioni di moti, di stragi e di guerre, scritte da un uomo di mondo e di azione; e, meglio ancora, i Ricordi di Marco Aurelio, nei quali l’imperatore, pur vivendo ed agendo tra la peste e la guerra coi Marcomanni e coi Quadi, la sera, sotto la tenda, fermò i suoi pensieri su se stesso, così remoti dalla guerra e dal mondo.
Giuseppe De Lorenzo (1871-1957) è stato un geografo, geologo e politico, docente presso l’Università di Napoli. Si occupò anche di indologia e divulgò in Italia la conoscenza del Buddhismo. Fu socio della “Accademia Nazionale dei Lincei” e membro della “Geological Society of London”