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La Cattura del Bue, dagli studi di Miri Autore e dalle letture a La Pagoda 2a parte

Le dieci icone della cattura del bue (seconda parte)

Il testo  che qui si riporta ha costituito oggetto di lettura presso La Pagoda e nasce da una mia personale sintesi del capolavoro scritto da Miri Autore. Dalle sue ricerche sul campo, specie in Giappone, ha tradotto lei stessa i testi e ne ha esplicitato il significato. In una densa introduzione fa luce sulla specificità di queste immagini e sul contesto culturale da cui nascono. Di questo testo è disponibile solo il testo scritto di cui si raccomanda l’acquisto “Le dieci icona del bue, storia zen in dieci quadri” ediz. Lantana www.lantanaeditore.com, 2012. Qui tralascio di riportare i testi da cui sono tratte le citazioni per lasciare ad ognuno l’intendimento di trovarle con l’acquisto del libro.

La propensione estetica della cultura cinese, specie nel IX sec. – epoca Sung – si esprime tra l’altro con “l’universo ineffabile” della pitture di paesaggi, il pittore stesso nel vivere questa esperienza si trasforma nell’ “uomo vero”, il saggio per eccellenza, al di là di ogni definizione.

Il IX secolo è un periodo particolare in cui si attua una interazione tra taoismo, buddhismo, confucianesimo e scienza, nonché tra diverse forme di espressione, pittura, poesia, calligrafia, musica e filosofia.

“Questi artisti avevano come regola la spontaneità e obbedivano allo spirito del vento e delle acque correnti. Attraverso i loro gesti creatori erano una testimonianza di come la mezza follia fosse una evasione verso il Vero e di come imparassero a danzare col pennello. La loro pittura è un gioco religioso, un mistero di grazia, dove tutto è libertà, effusione e dono… Il loro pensiero sfugge al controllo della volontà nella misura in cui questa è sforzo e non spinta irresistibile alla vita spirituale… La pittura dei letterati è il canto di una vita interiore che ha realizzato la leggerezza, liberandosi dai fardelli perituri per eternizzarsi nell’armonia universale… Così l’artista, divenuto un vero saggio, è come l’acqua d’autunno chiara e immobile, pura e senza attività, tranquilla, non conosce nessun ostacolo in se stessa“.

Poesia e pittura che accompagnano ogni tavola della “Cattura del Bue” erano considerate due arti dello stesso ordine perchè entrambe si servono del pennello, tant’è che la pittura veniva spesso definita “poesia silenziosa“. In epoca Sung le due arti si compenetrarono l’un l’alta: “I poemi sono dei dipinti e i dipinti sono dei poemi“.

E ancora pittura e poesia confluivano nella filosofia buddhista Chan, diffusasi in Cina nel VI sec. d. C. pervasa da stimoli provenienti da diverse tradizioni indù, buddhiste e taoiste … dell’esperienza religiosa.

Come il Taoismo, il buddhismo Chan abbandonò cerimonie e i riti stimolando i propri discepoli nella loro crescita spirituale con enigmi e paradossi. Nell’arte vige il principio taoista della profonda comunione tra uomo e natura. In Cina la pittura di paesaggio raggiunse livelli così sublimi da ritenerla addirittura una arte sacra. Un elemento importante in questa pittura di paesaggio era l’espressione “montagne-acqua“ tant’è che si diffuse la definizione di pittura come pittura di “montagne e acqua“.

Nelle immagini di montagna e acqua confluiscono i due poli della sensibilità umana: il cuore e lo spirito. “L’uomo di cuore si incanta della montagna, l’uomo di spirito gioisce dell’acqua”. Un “ritmo spirituale” esprime la profonda simpatia di tutte le cose di cui fa parte l’esperienza e la vita dell’uomo. Quando il pittore si raccoglie in contemplazione trasmuta la natura in un paesaggio interiore, in un fuoco creatore. “Senza attaccamento alcuno crea il vuoto mentale e il suo spirito illumina l’oggetto e lo spoglia della sua materialità”.

Nella sua meditazione il pittore dimentica l’oggetto da dipingere e ne trattiene sono l’idea pura. Il pittore diventa una cosa sola con il suo paesaggio e la visione interiore si fa visibile nel dipinto. Questo, a sua volta, acquista il potere di animare il suo spirito.

Ogni ricerca interiore, ogni ricerca del Sé implica la necessità di usare il linguaggio per comunicare esperienze che per loro natura trascendono il linguaggio. Da ciò l’abbondanza di paradossi in tutti i dialoghi; un classico esempio è il gesto del Buddha quando mostrò un fiore invece di tenere un discorso, provocando incomprensione da un lato e un sorriso sul viso di Mahakasyapa, che divenne poi primo patriarca della tradizione Chan.

Come si diceva, immagini, poesia, prosa, cioè sensazioni visive, sentimento, pensiero sono qui rivolti ad un unico scopo: l’intuizione della Via attraverso i simboli. È come se gli antichi maestri Chan, sottolineando questa stretta connessione tra queste tre arti, avessero voluto parlare a diversi livelli per essere compresi anche da chi non poteva comprendere. Si ha l’impressione che si volesse ribadire un significato espresso dall’immagine non solo con le parole poetiche, ma anche con le spiegazioni in prosa come se l’importanza del soggetto fosse tale da non permettergli di non capire. Mentre una antica massima cinese diceva che “un’immagine vale più di 10.000 parole“ ora si afferma, attenendosi ai precetti buddhisti espressi nel Lankavatara Sutra “Un insegnamento non adatto alle diverse persone che lo devono ricevere non può essere chiamato insegnamento“.

Nella pratica l’unico sforzo giusto è quello di andare “al di là“ di ogni apparenza e limitazione. L’espressione andare “al di là“ è particolarmente importante nel buddhismo zen e la si trova nel Maha-prajna-paramita-sutta, il “Grande insegnamento della saggezza che va oltre”  in cui si dice: “Andato, andato, andato al di là, andato completamente al di là, risvegliato, salute!”.

Questo mantra viene recitato quotidianamente in molti templi buddhisti cinesi e giapponesi, ma ora anche in templi italiani, indica che lo stato di risveglio è il totale superamento di tutti i limiti, al di là di questo mondo contingente .

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