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Educare al discernimento

Nel guardarci alle spalle, l’ombra lunga del nostro passato e non solo ci appare come la dimensione indecifrabile del karma. Solo un Buddha può vederlo, a noi rimane solo scorgerne alcuni tratti, spesso quelli già predisposti a maturare, gli altri rimangono latenti, non hanno ancora trovato la via per emergere o per essere ‘bruciati’ dalla consapevolezza.

La nostra mente, per forma e sviluppo, si distingue dagli altri esseri, ha maggiori potenzialità ma al contempo maggiori ostacoli su cui scivolare. È per questo che va educata.

Nel Buddhismo questa educazione si volge per esempio verso l’esperienza e l’equilibrato sviluppo delle Ali del Dharma. Il corpo del Dharma fatto di Sila, di un fondamento etico, da un lato l’Ala della consapevolezza Prajna, e dall’altra quella della saggezza, Samadhi.

Questi sono dei ‘recipienti’ che delineano un chiaro percorso per avvicinarci al Buddhismo. La pratica consiste nell’educare la mente a riconoscere e discernere i mezzi abili.

Certo che questa pratica produce non poco disagio e disorientamento. Quello che la mente cerca di evitare è spesso proprio ciò in cui la mente rimane invischiata. Già basta un pensiero per intessere più stretta la rete di Maya, o per dare più compattezza della ruota del Samsara, del perenne divenire e consolidarsi dell’ignoranza esistenziale, e non solo.

Ogni pensiero prolifera, la mente lo alimenta, lo consolida, gli dà forma e così si smarrisce il nesso da cui il pensiero è scaturito. Basta una singola ‘parola’ per ritrovarsi chissà dove! Quella parola anzichè essere un semplice suono, diviene un giudizio divisivo, diviene il primo passo servo la divisione, la lacerazione, la sofferenza, assai spesso, fraintesa, si consolida in una frontiera.

Un momento saliente nella crescita spirituale è il senso in cui il Buddhismo ti guida. Una volta compreso il gioco del samsara, la pratica trova i primi elementi per delinearsi. Dalla proliferazione mentale occorre esercitarsi a ritornare alla natura propria della mente.

Ormai la mente da bambino si è rinsecchita, ha perso l’immediatezza dello stupore, la novità e la gioia delle piccole cose, dal sorriso di una persona al primo giocattolo che la sua fantasia ha creato.

La mente si scorda della sua natura e va a consolidarsi nei propri giudizi, fa a spegnere la realtà, la novità diviene qualcosa di già conosciuto.

Tutto questo per dire che la pratica meditativa è una progressiva educazione della mente a ritornare alla ‘natura propria’, ad una mente priva di contaminazioni, consapevole delle sue potenzialità e povera di ogni suggestione di Maya.

Nel Buddhismo spesso si fa riferimento alla lucentezza di tale mente ritornata alla sorgente come quella pervasa da ‘chiara luce’, dall’innocenza della vacuità.

Quest’ultima dapprima si delinea in senso negativo, come una spoliazione da ogni contenuto, da quel ‘né questo né quello’ cui fanno riferimento le Upanishad, ma al contempo si colma di quella gioiosa serenità dell’equanimità, la porta di accesso al nirvana.

Nella mente va alimentata questa capacità di discernimento attraverso il fattore dell’aspirazione (pranidhana). Occorre coltivare una chiara intenzione, sapendo che il karma è pronto ad emergere venendo da lontano come da ogni dove.

Il motore di quanto detto viene, secondo l’insegnamento del Buddha, dall’ignoranza esistenziale in cui sempre più ci avviluppiamo e ogni palliativo, dati i presupposti, può essere fonte solo di un ulteriore gravame.

L’ignoranza aggiunge, la saggezza toglie, ed è più facile aggiungere che togliere.

rs

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