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Scompare l’io che ha compassione – di Rodolfo Savini

Scompare l’io che ha compassione.

Agli infermieri, medici, operatori sociali, volontari che in questo periodo non hanno tempo di chiedersi che cosa sia la compassione ma la stanno vivendo.

L’io è divisivo. Sono “io” che ho compassione di te. La mia compassione è macchiata da uno squilibrio: IO/ho compassione/di te.  Mi sento su un piedistallo. Gli altri sono l’oggetto della mia compassione. L’io domina lo spazio. L’io si sente già affrancato, avverte di avere uno specifico posto in questa relazione. Sembra già che il nostro io viva in una pienezza che sappia trasmettere veramente solo amore.

Se sono io ad avere compassione di te vuol dire che il mio amore è più grande del tuo. Tra me e te c’è una cascata a senso unico. La mia presunzione pretende di avere la capacità di avvolgere di compassione l’altro.

Dobbiamo trovare una radice più profonda alla compassione affinché questa possa svilupparsi appieno nella gratuità unificante. Gli insegnamenti ci indicano che la strada maestra è quella di avere prima di tutto compassione per noi stessi. Posso avere compassione per l’altro perché vedo in quali circostante si trova, intrappolato in un io egoistico, avido, perverso o vittima di circostanze a lui superiori. Ho compassione per lui, per il suo karma, per come il suo karma lo domini e lo renda prigioniero di se stesso. E’ il karma che fa prigioniero il karma stesso, le sue azioni lo rendono prigioniero delle sue stesse azioni.

Io mi accorgo, vedo e quindi avvolgo di compassione l’altro ma mi accorgo che vedendo l’altro accade qualcosa anche in me. Comincio a rendermi conto che questo io che ha compassione per l’altro in realtà è un io pervaso esso stesso dal peso del karma, cioè è un io che non è libero. Si attiva una relazione tra un io più egoistico e un io un po’ meno egoistico.

Ho compassione di un altro perché mi sento emancipato e superiore, oppure ho compassione di me stesso per questa presunzione? Quando io ho compassione di te, ho compassione di un tu legato da certi vincoli, da un certo karma che produce sofferenza. Ma non mi accorgo che poi essa non mi è estranea. Anch’io sono chiuso nello stesso egoismo, anch’io sono vittima delle stesse pulsioni, nell’altro le vedo evidenti, in me sono latenti. Neanche io sono libero dal karma.

Sin dalla nascita portiamo con noi un karma individuale, familiare, collettivo e così via. Possiamo sì attenuarlo, fiaccarlo, ma questo richiede una capacità che non possiamo dare per scontata. Quella compassione che io ho per l’altro nel momento in cui mi sento saldo sulla rocca dell’io è una falsa compassione. Sono anch’io immerso nella violenza, nell’aggressività, nell’incomprensione dell’altro. Mi sento anch’io come lui, non migliore né peggiore di lui. Allora ho compassione sia di te sia di me sia della nostra incapacità di districarci da questa situazione.

Nasce qualcosa che non ha più un soggetto, non c’è più un io che ha compassione per l’altro, c’è solo la compassione. Ciò di cui abbiamo bisogno è dissolvere l’io che si sente protagonista. Ciò che devo fare è trovare una via per uscire da questo equivoco, da questa trappola. E’ quella del vedere, del conoscere, dello sperimentare la compassione punto e basta.

Ogni essere, nessuno escluso, vive nell’impermanenza del divenire, siamo tutti bisognosi di compassione, di questa acqua nutriente che sgorga dalle radici della terra. Questa parola, non riguarda me, non riguarda te, non riguarda loro. L’unica via di uscita è sentirsi avvolti in ogni modo da ogni lato, dalla compassione. Ogni esistente dal momento in cui nasce porta con sé l’onda del karma. La meditazione ci aiuta a sentirla, a prenderne atto. Via via questo karma, questa compassione si purifica al calore di questa consapevolezza nascente.  La compassione guarda alla nostra esistenza, alla profondità della nostra esistenza. E’ una profondità che non conosco, è la dimora dell’ignoranza che lede ogni tipo di esperienza, ogni tipo di conoscenza, ogni tipo di azione.

Nel vedere chi soffre, chi è aggressivo, chi è violento vi è l’auspicio di togliere da me qualcosa cosicché possa scivolar via anche da lui. Voglio dissolvere la sofferenza, l’aggressività? Ecco la tolgo da me e di conseguenza la tolgo da lui. Siamo abituati a verificarsi del contrario, la mia rabbia attiva la rabbia altri, perché non dovrebbe accadere anche nello sviluppo opposto? Di qua c’è lo yang, di là c’è lo yin, sta a me scegliere, in virtù della pratica, della consapevolezza, della chiara visione il vascello su cui salire.

Se siamo tutti legati da questa evoluzione karmica, in cui ci sono io che ho la mia storia, tu con la tua, la mia famiglia con la sua storia, le società con la loro storia, allora ci accorgiamo, nell’intimità sempre più profonda del nostra animo, che siamo tutti vincolati dalla maestosa onda oceanica del karma.

Dal momento in cui mi accorgo l’onda si fa meno minacciosa. Se una ‘cellula’ delle mie incomprensioni, delle mie aggressività, delle mie presunzioni si allenta senz’altro, senza che me ne accorga, qualcosa in quell’onda si sgretola. Come in una parola basta che io tolga una vocale per rendere incomprensibile il tutto così se io riesco a togliere in me, spinto dalla sofferenza altrui e dalla pratica meditativa, la qualità della aggressività, allora nel guardare l’altro può aver luogo lo stesso miracolo.

Anziché consolidare uno sviluppo karmico ‘negativo’ mi accorgo, che qualcosa sta accadendo. L’aggressività altrui si fa più opaca proprio nella misura in cui il raccoglimento meditativo mi sveglia all’aggressività che c’è in me. Qui avviene il capovolgimento dei ruoli.

L’aggressività altrui si sminuisce perché si attenua la mia. Ecco la profonda esperienza dell’inter-essere. In qualche modo, non so come, quando guardo l’altro, quando con lui interagisco, tutto avviene da una profondità che non è quella dell’io, ma quella dell’esistenza.

Mi rendo conto che la vita è pervasa di violenza e aggressività, ma mi rendo anche conto che la vita è pervasa dalla compassione che abbraccia, che accoglie. Tutto ciò può accadere se mi volgo ad una sana purificazione dell’io.

L’altro mi aiuta. In lui vedo quell’ignoranza esistenziale che alberga anche in me. Anziché continuare a cercare mezzi e strumenti per allontanarla, la meditazione silenziosa mi aiuta a far emergere una compassione, una compassione smisurata capace di immergersi nell’abisso oscuro o abbagliante che sia dell’ignoranza esistenziale.

Tutti ci stiamo vicendevolmente aiutando in questo cammino, ora in un modo, ora in altro.

Se prima l’impegno principale era quello di purificare la compassione nelle profondità del mio egoismo per incontrare l’altro, forse un giorno ci incontreremo, con le mani giunte, nel gesto dell’omaggio, in una preghiera, in un sorriso di benevolenza, come appare sulle labbra del Buddha.

Forse quell’onda non è mai esistita, ma qui sono la fede-fiducia a guidare con umiltà il nostro intuito.

 

 

QUESTIONI qua e là

Una morte ricca di compassione.
Anche se il Buddha nella prima nobile verità insegna che “tutto è dolore” e indica come ciò sia vero perché con la morte dobbiamo lasciare tutto ciò che “abbiamo”. C’è da dire che alcune persone muoiono nella serenità. Non perché non se ne accorgano, p.es. perché dormono, ma vivono con tranquillità quel momento. Nei loro confronti si capovolgono i ruoli. La loro serena accettazione, meglio la loro serena accoglienza della morte, sono per noi un insegnamento. Allora chi è chiamato a meditare sull’egoismo, sull’aversione, sulla sofferenza, sul dolore, sono io.

Solidarietà e compassione.
Suggerirei di distinguere la solidarietà con cui mi volgo d’impulso all’altro o agli altri in quanto partecipi di una esperienza di disagio dovuta a motivi, sociali, economici, climatici, ambientali e così di seguito. Dalla compassione che fa un passo diverso. Non posso guardare, volgermi all’altro con compassione. La compassione agisce di per sé nel momento in cui sono io a viverla dentro di me. Il mio compito è sperimentare la compassione per me stesso, sarà allora la compassione stessa a prendersi cura dell’altro, non certo io. La compassione diviene compassione e basta, senza soggetto. Il compito dell’uomo è seminare, non pretendere di raccogliere il frutto.

 

La benevolenza.
Qui non si fa cenno alla benevolenza. Essa ci attende come una pioggia leggera che nutre il nostro animo; come un seme che, trovando un terreno ben arato dalla compassione, sarà in grado di accoglierlo. Con un sorriso appena accennato il Buddha sorride con il cuore ai nostri primi passi lungo la via del risveglio.

 

Terra e cielo.
La compassione nasce dalla terra, la benevolenza scende dal cielo. La compassione sono le radici, è la terra lavorata di cui l‘albero ha bisogno; la benevolenza sono i rami, i fiori e i frutti che il sole dal cielo con misura fa maturare.
L’azione e la compassione
Fino a che punto la compassione sa sorreggere l’ignoranza, in termini a noi culturalmente più vicini fino a che punto la preghiera può sostenere il male? C’è un momento in cui la pressione dell’ignoranza-male è così intensa e cieca da indurre la compassione-preghiera a una qualche forma di resistenza, più o meno attiva? La morte degli innocenti che la II guerra mondiale ha mostrato in modo radicale, ma che continua a ripetersi fino ad oggi per esempio tra le mura domestiche, può o potrà mai essere fronteggiata e dissolta dal potere trasformativo della non-violenza e della preghiera? Può accadere questo senza che la pura compassione perda la sua ricchezza per essere nuovamente catturata nella sfera di maya, del samsara, dell’alternarsi di yin-yang? Quale è il confine tra ricerca interiore e presenza sociale? Forse nel ruolo delle missioni cristiane o in quello delle Comunità buddhiste (che ora si stanno orientando in tal senso)? O anche loro vengono riassorbile nel ciclo del samsara, dell’egoismo? Fino a che punto la fede-fiducia sono così ferme e salde in se stesse, o quando e come in sè filtra l’esigenza di agire? E questo agire è senza macchia ed è giusto che così rimanga? Quale senso ha l’  “agire senza agire” che ci insegna la Bhagavad Gita? O quale quello dei i monaci buddhisti che si danno fuoco per protesta contro il dominio americano nel 1963 in Vietnam o l’episodio di Palac nella Cecoslovacchia nel 1969 contro la Russia? O esempi come Gandhi e S. Francesco, entrambi con forti radici religiose, il primo con la resistenza non-violenta, il secondo con la vita contemplativa?

 

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