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Thich Nhat Hanh & Iyengar

Ho due poesie cui sono particolarmente affezionato. Diverse nello svipuppo eppure simili nel senso.

La prima è il testo di Thich Nhat Hanh “Chiamatemi con i miei veri nomi”, l’altra è quella di Iyengar “Il Canto dell’Anima”.

Nella prima l’amore si estrime in una totale condivisione di ogni esperienza. Il monaco, o chi sa guardare con la stessa intensità, è sempre nella realtà quotidiana, in ogni quotidianità, in ogni attimo. Così vicino ad ogni realtà da essere tutt’uno con essa e vivere con essa gioia e dolori, risa e pianti. Nessuno è lasciato solo. Thay guarda nel cuore di ognuno e in esso trova qualcosa di unitivo. Ogni essere vivente, pur diverso, pur di diversa specie, partecipa alla vita. Questa è di per sè conflittuale, lo yin e lo yang sono eterno conflitto, è il conflitto dell’inappagamento, del bisogno, della sofferenza. Thay si ferma. Il samsara continuerà a scorre incessante, ma in ogni attimo è lì fermo davanti allo sguardo del monaco. In quell’attimo il monaco vi scorge commosso sia i ritmi incessanti della natura sia quelli più ciechi dell’attaccamente, dell’avversione, della debolezza che caratterizzano l’uomo. Thay abbraccia ognuno, a tutto e a tutti è vicino, in ogni momento, in ogni attimo. La sua presenza sa svestire l’animo dell’uomo dalle sue presunzioni e ipocrisie.

Iyengar tratteggia il carattere del monaco che vede il limite di ogni casa, il carattere insoddisfacente di ogni cosa. Il monaco cerca l’assoluto, la Beatitudine al di là dei marosi del divenire. La sua è una continua scelta e un progressivo lasciar andare. Il monaco, in virtù della sua visione profonda, vede che in ogni momento, piacevole o spicevole che sia, il suo carattere  insoddisfacente. Nulla lo appaga. Ma mentre Thay, davanti a questo paradosso, torna all’umana incomprensione della realtà, Iyengar si muove diversamente. Anche lui trova il limite di ogni punto di riferimento cui l’uomo ricorre per acquisire sicurezza. La sicurezza non si può trrovare in ciò che è contingente, né nel samsara, né nel divenire. Iyengar, come Thay si ferma, ma mentre costui guarda con compassione la fragilità dell’uomo, Iyengar intravede la Beatitudine del samadhi, del nirvana, dell’incondizionato al di là del contingente. (Alla mia mente ritorna l’episodio del Vangelo in cui Maria si impegna a preparare il pranzo per Gesù, mentre Marta siede commossa ai suoi piedi del Maestro, Lc 10,40)

Fare e contemplare, l’aiuto agli altri e la via da seguire per il nirvana si intrecciano e si confondono.  Iyengar non accenna alla meta, ci dice che il suo cammino lo apre ad una Beatitudine sempre più onnicomprensiva. Thay volge questa beatitudine in Compassione vedendo le fragilità tra cui si dibatte l’egoismo.  I  entrambi i casi la “domanda”  diviene una luce per il viandante, un faro per la barca tra le onde del samsara.  Leggerne l’una aiuta a leggere l’altra.  Beatitudine e Compassione si rispecchiano l’una nell’altra. Con un passo guardo alla porta del mio cuore aperta alla Compassione, con l’altro alla Beatitudine di una luce infinita che ci avvolge.

Qui di seguito riporto i due testi di Thich Nhat Hanh e di Iyengar

THICH NHAT HANH
Per favore chiamatemi con i miei veri nomi

Non dire che domani scomparirò,
perché io arrivo sempre.

Guarda in profondità: io arrivo ogni secondo,
per essere un germoglio sul ramo a primavera;
per essere un minuscolo uccellino con le ali ancora fragili
che impara a cantare nel suo nido;
per essere un bruco nel cuore di un fiore,
per essere un gioiello che si nasconde in una pietra.

Io arrivo sempre, per ridere e per piangere,
per temere e per sperare.
Il ritmo del mio cuore è la nascita e
la morte di tutto ciò che è vivo.

Io sono un insetto che muta la sua forma sulla superficie di un fiume.
E io sono l’uccello che, a primavera, arriva a mangiare l’insetto.

Io sono una rana che nuota felice nell’acqua chiara di uno stagno.
E io sono il serpente che, avvicinandosi in silenzio, divora la rana.

Sono un bambino in Uganda, tutto pelle e ossa, le mie gambe esili come canne di bambù,
e io sono il mercante di armi che vende armi mortali all’Uganda.

Io sono la bambina dodicenne profuga su una barca,
che si getta in mare dopo essere stata violentata da un pirata.
E io sono il pirata, il mio cuore ancora incapace di vedere e di amare.

Io sono un membro del Politburo, con tanto potere a disposizione.
E io sono l’uomo che deve pagare il ‘debito di sangue’ alla mia gente,
morendo lentamente in un campo di lavori forzati.

La mia gioia è come la primavera, così splendente che da sbocciare i fiori su tutti i sentieri della vita.
Il mio dolore è come un fiume in lacrime, così gonfio che riempie tutti i quattro oceani.

Per favore chiamatemi con i miei veri nomi,
cosicché io possa udire tutti i miei pianti e tutte le mie risa insieme;
cosicché io possa vedere che la mia gioia e il mio dolore sono una cosa sola.

Per favore chiamatemi con i miei veri nomi,
cosicché io mi possa svegliare
e cosicché la porta del mio cuore sia lasciata aperta,
la porta della compassione.

da: Thich Nhat Hanh Essere pace  Roma (Ubaldini), 1989

 

IYENGAR
Canto dell’Anima

Non sono l’io né la ragione, non sono la mente né il pensiero,
non posso essere sentito né espresso in parole, né posso essere percepito dall’olfatto né dalla vista;
non mi si trova nella luce, né nel vento, né sulla terra o nel cielo,
incarno la coscienza e la gioia, e Beatitudine del beato io sono.

Non ho nome, né vita, non respiro aria vitale,
nessun elemento mi ha plasmato, né veste corporea è il mio rifugio:
non parlo, non ho mani  né piedi, né mezzi di sviluppo.
Coscienza e gioia io sono e Beatitudine nella dissoluzione.

Mi libero dall’odio e dalla passione, ho superato la delusione e  il desiderio;
nessuna punta d’orgoglio mi ha sfiorato, cosicché invidia non ho mai provato;
al di là di ogni fede superata la ricchezza, la libertà, il desiderio,
coscienza e gioia io sono, e la Beatitudine è il mio ornamento.

Virtù e vizio, piacere o dolore non sono il mio patrimonio,
né testi sacri, né offerte, né preghiere, né pellegrinaggio;
non sono il cibo, né il mangiare, né colui che mangia io sono.

Incarno la gioia e la coscienza, Beatitudine del Beato io sono.

Non ho apprensione per la morte, né pregiudizi di razza mi isolano,
nessun genitore mi ha chiamato figlio, nessun legame di nascita mi ha mai legato:
non sono né il discepolo né il maestro, non ho né parenti né amici.

Coscienza e gioia io sono, e assorbirmi nella Beatitudine è il mio fine.

Né il comprensibile, la conoscenza o il conoscitore io sono, il senza forma è la mia forma,
abito nei sensi ma essi non sono la mia dimora:
sempre serenamente equilibrato, non sono libero né legato.

Coscienza e gioia io sono, e Beatitudine é sempre a me vicina.

B. K. S. Iyengar Teoria e pratica dello Yoga 1968 p. 70

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