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Non parlarne in pubblico – dalla Brihadaranyaka Upanishad III 1,13

Non parlarne in pubblico – dalla Brihadaranyaka Upanishad III 1,13

Le Upanishad antiche sono testi molto antichi, che per molto tempo sono stati tramandati solo oralmente. Quando sono stati messi per iscritto, è stato difficile stabilire la loro datazione. Questo perché in India si usava una concezione del tempo diversa da quella occidentale: non lineare, ma circolare. Quindi l’attenzione si apre ad una dimensione individuale e cosmica, tutta da esplorare e riscoprire alla luce della ricerca eterna dell’uomo. Si pensa che le Upanishad antiche siano state scritte tra il IX e l’VIII secolo a.C.

Mi sono avvicinato alla lettura della Brihad-aranyaka-upanishad, in particolare al Terzo libro, Primo capitolo, Versetto 13. Questo non è un commento storico, ma la mia domanda personale di fronte a questi testi preziosi, che sono il mio “diario”, nel rispetto della loro origine storica su cui ci sono studi senza dubbio più articolati e approfonditi.

In questo versetto mi hanno colpito soprattutto tre aspetti che voglio condividere.

Il primo è la riservatezza dell’insegnamento. Qui si legge che Yajnavalkya, il maestro di Artabhaga, dopo avergli insegnato qualcosa, gli dice “prendimi per mano: solo noi due dobbiamo sapere queste cose: non parliamone in pubblico”. Era un altro tempo, oggi difficilmente si direbbe così. Oggi c’è la privacy, che sostituisce questo consiglio intimo e affettuoso. Non ci si “prende per mano”, ma è quello che vorremmo fare. Prendersi per mano è già comunicare. La mano viene prima, in questo discorso, dell’insegnamento di Yajnavalkya ad Artabhaga. Questo gesto elimina la distanza tra i due, è segno di una profonda amicizia, è qualcosa che deve rimanere “tra noi”. Non è però un segno di superiorità, ma di comprensione. Questo lo noto anche negli insegnamenti di Yoga, tra i partecipanti a volte si esprimono dei pensieri che è meglio non dire ad altri, perché non capirebbero il significato di queste parole legate a una esperienza specifica. Se si dicessero, sarebbero incomprensibili e provocherebbero una semplicistica incomprensione. In realtà, le parole di Yajnavalkya non sono un orgoglioso segreto, ma un gesto di rispetto. Mi aiutano a guardare più in profondità. Mi invitano a creare una relazione diversa con l’ascolto. Mi suggeriscono di “sospendere il giudizio” per darmi tempo, per “ruminare” l’insegnamento ricevuto, per assimilarlo con il corpo, prima ancora che con la ragione.

Il secondo aspetto riguarda la stretta connessione tra la nostra persona e il cosmo. Il karma influenza il nostro passato e il nostro futuro, ma il corpo? In questo versetto leggo che anche il corpo ha una ricchezza che coinvolge una dimensione cosmica diversa. La mente è e sarà espressione del karma, ma il corpo fa parte del tutto. Ogni organo della mia persona si scioglie in una realtà forse più profonda. Meditando su queste parole sento lo scioglimento della mia individualità in qualcosa di più ampio. Quando mi dissolverò, tutte le mie energie vitali non si spegneranno, ma saranno espressione dell’essere al di là e oltre la mia coscienza. Quest’ultima perderà la capacità di “tenere il timone”, non ne sarò più cosciente, non sarà più una soddisfazione dell’io. Così mi sembra di ritrovare una ricchezza cosmica di cui sono parte, anche se inconsapevolmente.

“Una vota che l’uomo è morto, la voce entra nel fuoco, il prana nell’aria, l’occhio nel sole, la mente nella luna, l’orecchio nelle regioni dello spazio, il corpo nella terra, l’anima (atman) nell’etere, i peli nell’erba, i capelli negli alberi, il sangue e il seme nelle acque, dove si trova dunque quest’uomo?”

Il terzo punto riguarda il commento del redattore di questa Upanishad, che spiega, da un punto di vista esterno, il significato di questo dialogo tra maestro e discepolo. Il loro discorso non era basato su voce e suono, su respiro e aria e così via. Ogni loro parola esprimeva il potere del karma, ogni discorso, ogni elogio aveva un soggetto diverso. Erano l’espressione di un messaggio che diffondevano in se stessi e nel mondo intorno a loro. Era il messaggio del karma:

“Parlando, parlavano dell’azione (karma); lodando, lodavano l’azione: si diventa buoni per le buone azioni, si diventa cattivi per le cattive azioni”.

La conclusione di questo discorso è l’inadeguatezza di ogni nostro pensiero, la resa difronte ad una ignoranza invalicabile, ovvero di fronte ad una conoscenza che supera di molto la nostra conoscenza: “Allora Lahyayani tacque” come si dice nel versetto successivo.

Vi lascio i riferimenti dei passi che ho citato, per approfondire e contestualizzare meglio di me il testo sia dal punto di vista letterario che storico di questa Upanishad. Potete consultare l’introduzione e il testo di questa Upanishad in Pio Filippani-Rondoni – Boringhieri 1977 (originale 1960). Per Yajnavalkya e Artabhaga potete cercare le loro voci su Internet.

Ho usato i caratteri normali per le parole e i nomi con segni diacritici.

 

 

upanishad 5Le Upanishad antiche sono di difficile datazione, a lungo trasmesse oralmente le ritroviamo quando prendono forma scritta. Ma questa è una ulteriore difficoltà perchè in India a lungo è prevalsa una concezione circolare centrata su una dimensione sia individuale che cosmica da indagare e reindagare, vale a dire una concezione più ciclica del tempo che lineare come in Occidente, in cui prevale il ‘tempo’, rispetto a quella indiana centrata sul “qui”, sulla perenne ricerca dell’uomo. Comunque, volendole dare una data indicativa, sia questa che le altre Upanishad antiche vengono usualmente datate intorno al IX-VIII sec. a.C.

Ora mi avventuro nella lettura della Brihad-aranyaka-upanishad, in particolare alla Terza lettura, Primo brahmana, Strofa 13. Ciò che leggerete non ha un carattere storico quanto piuttosto vi si trova la mia domanda interiore al cospetto di questi  preziosi testi, sono il mio “diari0″, certamente nel rispetto della loro natura storica su cui vi sono riflessioni più attendibili.

 

In questa strofa 13 mi hanno interessato in particolare tre elementi su cui mi soffermo.

Il primo momento che voglio sottolineare è la riservatezza dell’insegnamento. Qui si legge che Yajnavalkya, il maestro di Artabhaga, dopo aver dato un insegnamento dice all’amico Artabhaga “prendimi per mano: noi due soli possiamo essere a conoscenza di queste cose: non è il caso che ne parliamo in pubblico”. Sono tempi lontani, oggi raramente ci si esprimerebbe in questo modo. Oggi prevale la privacy a compensare questo consiglio intimo e affettuoso. Non ci si ‘prende la mano’ eppure è ciò che anche oggi sentiamo il bisogno di fare. Prendersi per mano è già un segno di comunicazione. La mano viene prima, in questo discorso, dell’insegnamento di Yajnavalkya ad Artabhaga . Questo gesto annulla la distanza tra gli interlocutori, è segno di una intima condivisione tra amici, è qualcosa che deve restare ‘tra noi’. Non è però segno di una superiorità quanto l’esigenza di ‘farsi capire’. Questo lo noto anche negli insegnamenti di Yoga, tra i partecipanti capita di frequente di esprimere dei pensieri di cui è meglio non parlane con altri perchè non capirebbero il senso di queste parole calate in una specifica esperienza. Se si dicessero risulterebbero incomprensibili e susciterebbero un senso di incomprensione semplicistica. Certo che ‘di fatto’ le indicazioni di Yajnavalkya  sono indice non tanto di un orgoglioso segreto, quanto di un senso di rispetto. Vale a dire che mi aiutano a guardare in profondità. Si tratta di sviluppare una relazione diversa nell’ascolto. Alludo ad una ‘sospensione del giudizio’ per darmi tempo, per ‘ruminare’ l’insegnamento ricevuto, per assimilarlo con il corpo, ancor prima che con la razionalità.

Il secondo momento allude alla stretta connessione della totalità della nostra persona con il cosmo. E’ vero che il karma orienta il nostro passato e il nostro futuro ma che ne è del corpo? In questo passo vi leggo che anche il corpo ha una ricchezza  che coinvolge una differente dimensione cosmica.  La mente certo è e sarà espressione del karma ma il corpo diviene parte del tutto. Ogni organo della mia persona si dissolve in una realtà forse più profonda. Meditando su queste righe avverto il disciogliersi della mia individualità in qualcosa di più vasto. Alla mia dissoluzione tutte le mie forze vitali non si spegneranno ma diverranno espressione dell’essere al di là e oltre la mia coscienza. Quest’ultima perderà l’attitudine a ‘tenere il timone’, non ne sarò più cosciente, non si sarà più una gratificazione dell’io. In tal modo mi sembra di ritrovare una ricchezza cosmica di cui sono parte, pur  inconsapevolmente.

“Una vota che l’uomo è morto, la voce entra nel fuoco, il prana nell’aria, l’occhio nel sole, la mente nella luna, l’orecchio nelle regioni dello spazio, il corpo nella terra, l’anima (atman) nell’etere, i peli nell’erba, i capelli negli alberi, il sangue e il seme nelle acque, dove si trova dunque quest’uomo?”

 

Il terzo momento fa riferimento all’intervento del redattore di questa Upanishad che esplicita, come un osservatore esterno, il senso di questo discorrere tra maestro e discepolo. Il senso del loro discorrere non era certo fatto di voce e suono, di prana e aria e così via. Ogni loro parola esprime la forza del karma, ogni discorrere, ogni lode ha un soggetto diverso. Sono espressione di un messaggio che diffondevano in se stessi e nello spazio circostante. Era il messaggio del karma:

“E’ mentre essi parlavano, è dell’azione (karma) che essi parlavano; e mentre lodavano, è l’azione che essi lodavano: si diventa buono per l’azione buona, si diventa reietto per l’azione cattiva”.

La conclusione di questo discorrere è la resa al cospetto del non-sapere, al cospetto di un sapere che travalica di gran lunga il nostro sapere: “Allora Lahyayani si tacque” come viene detto nella strofa successiva.

Riporto ora i passi cui ho  fatto riferimento, lasciando anche a voi modo di riflettervi e inquadrandoli, meglio di me, all’intero del  contesto sia letterario che storico di questa Upanishad. Si veda a proposito l’introduzione e il testo di questa Upanishad in Pio Filippani-Rondoni – Boringhieri 1977 (originale 1960). Circa Yajnavalkya ad Artabhaga si può fare riferimento direttamente alle rispettive voci su Internet.

Le parole e nomi con segni diacritici sono traslitterante nei nostri caratteri.

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