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Trimle ott – dic 2003 n° 4 Anno V

Anno V n° 4 ( Ottobre – Novembre – Dicembre )

  • Luce per guardarmi  ( Luciana  Favorito )
  • Sul Dolore (Ludovico Petroni )
  •  

     

    Luce per guardarmi

    di Luciana Favorito

    In questi ultimi tempi il lavoro interiore sul quale mi sono concentrata è stato quello di una investigazione psicologica compiuta anche con il prezioso contributo di alcune letture speciali; le quali mi hanno letteralmente presa per mano e accompagnato, con discrezione e levità, attraverso l’autoesplorazione e la piena coscienza che ho cercato e tutt’ora cerco di applicare nei vari compiti della mia vita: lavoro, famiglia, comunità.

    Inizialmente è stato un lavoro alquanto difficile. Mi è stato possibile “illuminare” aree del mio comportamento e della mia vita interiore che prima mi erano del tutto oscure; l’impatto con la scoperta di “proiezioni” o più semplicemente di “schemi mentali” fortemente condizionanti è stato così forte che avevano cominciato a destabilizzarmi trascinandomi nella corrente impetuosa di ciò che stavo sperimentando.

    Ero cosciente di essere incagliata in qualcosa che ostacolava questo viaggio introspettivo ma dal quale non riuscivo a liberarmi. Era come girare a vuoto. La mia sofferenza e il mio disagio erano notevolmente aumentate. Successivamente, durante un colloquio con un amico, ho capito che nonostante i miei sforzi per non identificarmi con ciò che sperimentavo, avevo finito invece per attaccarmi proprio a ciò che vedevo e sentivo. La meditazione, quindi, da strumento di indagine con il quale scendevo in profondità, alla fine si era caricata di grandi tensioni ed ansie. Riconoscere questo errare è stato come aprire una finestra sul mare: la luce illumina le onde e i flutti della nostra mente eternamente in movimento. Noi però, in questo caso, siamo sulla finestra e non tra le onde del mare, in preda al panico.

    Questa esperienza, da una parte, mi ha spinto con incredibile fiducia e risolutezza ad entrare più in contatto con la mia quotidianità qualunque essa sia, dall’altra ha riconfermato l’importanza di una pratica costante ma soprattutto attenta, laboriosa e attiva. Maggiore è il nostro addestramento nella meditazione e maggiore sarà la nostra capacità di vedere e andare oltre a ciò che sperimentiamo durante la seduta e poi anche nella vita.

    In realtà mi accorgo che ciò che inizialmente avevo definito come un viaggio introspettivo, implicandone un inizio e una fine, non è stato affatto un viaggio, ma la mia stessa vita; una realtà che ora a tratti comincio a vedere, squarci di luce dietro le nuvole di un sé falsamente costruito. Sperimentare anche solo per pochi attimi questa nuova dimensione dà una grande energia e una grande fiducia in se stessi, perché ci dà la certezza di essere sulla strada giusta e che i nostri sforzi prima o poi daranno dei frutti. La fiducia in se stessi è la chiave che ci apre prima di tutto all’accettazione di noi stessi, quindi alla compassione e alla percezione di integrazione con il tutto.

    Tutto questo non ci rende bravi, illuminati o chissà cosa, ma semplicemente autentici, anche nella confusione e nella sofferenza. “Essere”, in fondo, è proprio questo.

     

    Sul dolore: L’Usuale Elusione di Ludovico Petroni

    A parte tutti coloro che, appartenenti alle più variegate correnti, si proclamano “Buddisti” senza aver mai udito neppure una singola frase del Buddha, non credo sia un caso la negligenza così diffusa di questo principio essenziale: Dukkha è ciò che è “duro da sopportare” e ciò che è duro da sopportare non lo si vuol vedere, né se ne vuol sentir parlare. La mente si imposta automaticamente in quest’opera di respingimento e nel suo negligere l’acutezza di Dukkha aumenta.

    Ove questo generalizzato processo di rimozione diviene più palese è in un macroscopico esempio sicuro per tutti. Come due magneti che si respingono, la mente costantemente si aliena dal contemplare l’evento più imponente che ci aspetta, che è la fine della vita stessa. Così, procediamo goliardicamente accomunati dall’andare tutti insieme all’esame finale senza aver aperto libro.

    La nostra fine è certa, eppure si fa di tutto fuorché pensarci, o, forse, si fa di tutto per non pensarci.

    Tante delle nostre ansie e paure sono legate ad eventi che non hanno avuto né avranno luogo e nessun evento è “in garanzia”: la morte è certa, e non si sa quando può avvenire, così da divenire “l’unica cosa certa”.

    Tutti i nostri progetti, programmi e aspirazioni, vicini o lontani negli anni, possono non avvenire. La penna può cadere di mano e questo scritto rimanere incompiuto, o voi potreste non arrivare all’ultima parola. Rimane l’acutezza del presente, asciugato nella sua liberante attualità.

    Come un viandante che, con un bastone, lancia tranquillamente via un serpente incontrato sul sentiero, il saggio che riflette sulla morte non sarà atterrito dal suo arrivo.

    E nel prepararsi in solitudine all’esame finale, quest’esperienza a termine chiamata vita si fa indicibilmente più preziosa.

     

    Sul dolore: Rivelazione di Ludovico Petroni

    Fortunatamente per noi, finalmente il Risvegliato decise di comunicare al mondo la sua scoperta nella notte della rivelazione. Ma chi avrebbe potuto capire? I suoi vecchi maestri avrebbero potuto, ma non erano vissuti abbastanza a lungo. Decise quindi di rintracciare il vecchio gruppo di asceti da cui si era separato pochi mesi prima, allo stremo delle forze per le eccessive privazioni. Benché fosse un caldo feroce, lasciò il villaggio di Uruvela e s’incamminò verso Nord, sulla terra crepata che chiamava la prima pioggia del monsone. Passò il grande fiume in secca ad Ovest del fiorente villaggio di Patali. L’acqua era ormai marrone per le nevi che si scioglievano sull’Himalaya.

    In una decina di giorni raggiunse il “Parco dei cervi” di Isipatana, l’abituale ritrovo di asceti itineranti, poco a Nord della mitica eterna città di Kashi., sul grande fiume, per mettere in moto la Ruota del Dharma di cui oggi ci sentiamo scheggia.

    Ci disse di Dukkha, cioè che il nascere è dolore e che, poiché si è nati, sperimenteremo disagio, sofferenza, angoscia, disperazione, dolore fisico e mentale, vecchiaia, malattia e morte, lo stare con ciò con cui non vorremmo stare, l’essere separati da ciò con cui vorremmo stare, il non ottenere ciò che si vuole…. E fermiamoci qui. Queste ultime tre sentenze racchiudono tutto lo sperimentabile e sono accomunate da una condizione, il “volere”. Una pulsione che viene da “noi” e che non incontra la sintonia con ciò che è, il senso di attrito contro una superficie che non ci accomoda, il senso di incompatibilità e separazione tra l’intimo nostro e un resto che apparentemente da noi prescinde.

    Qui si originano anche le due mozioni principe che sbilanciano gli esseri. Tutti non vorremmo la malattia, non vorremmo la vecchiaia, non vorremmo la morte, non vorremmo sofferenze fisiche e mentali: il dover stare con ciò con cui non vorremmo stare è stazione di partenza della negazione, avversione, contrarietà.

    Tutti vorremmo la giovinezza, la salute, la bellezza, il piacere. L’essere si sbilancia a chiedere qualcosa che dall’esterno venga a colmare un’intrinseca carenza, una sete estinguibile solo in modo effimero. L’essere separati da ciò con cui vorremmo stare è stazione di partenza del treno del desiderio, della bramosia, dell’avidità. Forse, vista la destinazione dei treni in partenza, dovremmo guardare con sospetto a ciò che la mente vuole.

    La riduzione di Dukkha a dolore e sofferenza come repentinamente abbiamo preso a tradurla, forse non rende giustizia a quanto generalizzata sia questa scomodità d’esistere.

    A Wat Sraket, un’isola tranquilla nel mezzo al caos della moderna Bangkok, vi avrebbe accolto la vecchia laica Achaan Naeb.

    Inizialmente insegnava i visitatori a seder conforte-volmente, quindi chiedeva loro di non muoversi. Tempo poco, qualcuno automaticamente cominciava a cambiare posizione. “Aspetta! Fermati. Perché ti muovi? Non ti muovere per ora!” L’insegnamento di Achaan Naeb puntava direttamente sulla più ovvia fonte di sofferenza: i nostri propri corpi.

    A prescindere da quale posizione assumiamo, se semplicemente rimaniamo immobili, presto o tardi qualche dolore sorgerà automaticamente in qualche parte del corpo ed aumenterà fino a farci cambiare posizione. Quasi tutte le nostre azioni della giornata (anche nel sonno!) seguono questo modulo.

    Ci svegliamo e andiamo in bagno ad alleviare la dolorosa pressione della vescica. Quindi mangiamo per alleviare i “morsi della fame”. Poi ci sediamo per alleviare la scomodità di stare in piedi. In seguito parliamo o guardiamo la TV, per distrarci dalla pena della nostra angoscia. Quando improvvisamente ci sentiamo esposti nelle nostre aree più vulnerabili ed intime, automa-ticamente ci rannicchiamo, magari accavallando le gambe.

    Qui la prospettiva si fa più ampia dell’evento straordinario che ordinariamente etichettiamo come “dolore”. Qui siamo immersi in un liquido ostile di cui il nostro dibattere è parte, dolenti sono le fasi cruciali dell’esistere cui siamo chiamati per Ignoranza Cosmica.

    E’ per non aver visto la legge di Dukkha che voi ed io ci siamo incarnati in questo pianeta ancora ed ancora. Le indicazioni furono chiare, ma presto oscurate ancora dall’Ignoranza.

    E se la libertà non fosse altro che volgere lo sguardo proprio lì, se non fosse altro che un tuffo preciso nel centro di ciò che chiamiamo dolore?

     

    Sul dolore: L’Affievolirsi del Dolore di Ludovico Petroni

    Se vogliamo contemplare ciò che semplicemente s’intende come dolore (sia nella dimensione fisica, sia in quella mentale) quanto effettivamente rimane della sensazione di origine, una volta prosciugatala dalla viscosità dei vincoli reattivi apparentemente inscindibili alla mente ordinaria, per quanto arcaica e consueta sia la loro intrinsicità? Basti pensare che una delle violenze più efferate in ogni cultura è lo stupro: spesso caratterizzato da un livello di dolore fisico poco significativo, ci indica come il grosso della parte dolente sia altrove.

    Le propaggini di paura, angoscia, tensione e rabbia che circondano l’esperienza più nuda di dolore e l’idea di morte si articolano e condensano con la crescita dell’individuo. In un bimbo molto piccolo, la contrapposizione vita-morte è assente. La percezione del dolore è ridotta all’essenziale per mancanza d’esperienza memorizzata e per una sovrastruttura culturale caratterizzata da mancanza di paura della morte.

    La paura che un bambino ammalato gravemente può mostrare è spesso il riflesso del terrore che provano i genitori. Ciò che i bambini sanno della morte e del dolore in genere proviene dall’ambiente immediatamente circostante, cioè la sovrastruttura di angoscia, resistenza e paura che mostrano è quella dei genitori, senza la quale un bambino può affrontare dolore fisico e morte con più morbidezza e facilità degli adulti.

    Allora…. per un contratto che non ricordate più di aver firmato, siete nati a Chernobyl, in una casetta proprio vicino a dove lavora papà. All’inizio fu quasi divertente, quando vennero gli uomini vestiti da marziani a portarvi via. Poi cominciarono a farvi tante punture in un padiglione apposito, con altri bambini senza capelli come voi con cui giocare.

    Non sapete cosa sia la malattia, cosa vogliano dire chemioterapia, leucemia, trapianto del midollo.

    A volte la mamma viene, con nuovi giocattoli, tante carezze e una forza strana nel suo abbraccio, un fremito nuovo sulle sue labbra. Le lacrime trattenute a stento hanno sbavato un po’ il trucco.

    La mamma sta soffrendo a causa vostra, si è irrigidita e si sta opponendo per voi. Non potete tradirla, ce lo metterete tutto quel nuovo groppo di non accettante disperazione appena ereditato, per piangere più forte, recalcitrando alla vista di dottori e infermieri sempre più brutti.

    La mamma è sempre molto buona, non vi ha mai carezzato così a lungo, né stretto così forte, neanche quando gioivate della sua gioia nel vedervi stare in piedi, muovere i primi passi barcollanti, mangiare tanta pappa o fare la popò nel posto giusto. Oggi sapete di non essere più così in gamba da meritare il calore di quell’abbraccio che vi è rimasto impresso, senza sapere che si chiama “disperazione”, quando le avete chiesto dove andavano i compagni di giochi che via via partivano «per andare in un posto più bello dove vi incontrerete tutti per giocare insieme per sempre ». Non avete idea di quanto possa essere breve il volo di una rondine.

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