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Trimle gen – mar 2004 n° 1 Anno VI

  

 Pagine di Diario    di Maria Luciana Favorito

Storia di una guarigione miracolosa    di Ludovico Petroni

Amicizia: dimensioni di un’esperienza    di Rodolfo Savini 

 

Pagine di Diario 

  di Maria Luciana Favorito

Sento in questo periodo il bisogno di condividere questo lento, doloroso ma ineluttabile processo di chiarificazione della mia vera “non identità”.

Le vacanze prima e una rovinosa caduta in bicicletta poi (la quale mi ha costretto a riposo per qualche settimana) mi hanno messo a disposizione molto tempo. Così, fuori dallo stress del lavoro e in tutta tranquillità, ho potuto “lavorare” su me stessa, fare cioè un bilancio interiore di questi ultimi mesi caratterizzati da questo disagio.

La meditazione mi ha permesso di vedere nell’ “attaccamento” la causa di questo disagio: continuo infatti a identificarmi in un Sé falso, la cui percezione non è solo fonte di paure, ma è anche alla base di un comportamento che sento “irreale” e che a sua volta mi procura frustrazione e sofferenza.

Ogni volta che, dopo la tempesta, riesco a trovare la quiete e la giusta “centratura”, mi rendo conti di quanto sia essenziale la “presenza mentale” nella vita quotidiana. Infatti, credo che se in questo ultimo periodo avessi fatto esperienza delle emozioni provate, avrei potuto intuire e lavorare dentro a questo processo di identificazione e, soprattutto, la mia pratica avrebbe potuto essere più incisiva e incoraggiante. Invece mi sono ritrovata a chiedermi, sfiduciata e demotivata, dove e in che cosa avessi sbagliato. Ho sperimentato una volta di più quanto la “retta presenza mentale” incarni la “meditazione in azione”. Se una delle due manca oppure è carente, è facile ritrovarsi fuori strada e demotivati, poiché l’una è intimamente connessa con l’altra, l’una dà nutrimento e continuità all’altra.

Possiamo essere costanti e meticolosi nella meditazione formale, ma se poi per il resto della giornata siamo fuori centro, i risultati del nostro cammino saranno ben pochi. Proprio in questa continuità sta il mio impegno, il “retto sforzo”.

Una ulteriore scoperta fatta durante la convalescenza è stata quella di sperimentare una profonda paura del dolore, di cui fino ad oggi ho ignorato l’esistenza. Durante le prime notti dopo l’incidente in cui il dolore era più acuto, ho sperimentato l’angoscia del disagio fisico e nelle sedute di meditazione giornaliere il panico è ricomparso sotto altre forme. Ciò che è emerso, è che in realtà questa profonda paura del dolore fisico, ne nasconde un’altra molto più antica. Quella di non poter più avere il controllo delle sensazioni e di essere sopraffatta dalle emozioni: il terrore cioè del “lasciare andare”, di perdermi e di non potermi più “tenere insieme”. È proprio questa sfiducia nel lasciare andare e questo bisogno di tenermi insieme a tutti i costi che crea molta sofferenza. Credo che essa sia essenzialmente legata all’esperienza della mia infanzia e a quel fantomatico “SE’ “, al quale mi aggrappo ciecamente, privandomi così della possibilità di “ESSERE” semplicemente. A volte sento che noi siamo ciò che continuamente si frantuma nel flusso incessante delle cose, la cui percezione è quella di “essere” nel mezzo di vuoti fenomeni che accadono.

Il cammino verso la realizzazione di ciò che siamo veramente (e non quello che ci sentiamo di essere) è lungo non perché sia particolarmente difficile riconoscere ciò che siamo sempre stati e che abbiamo sotto gli occhi, ma perché siamo continuamente distratti dalla quotidianità della nostra vita.

“Sentire” la nostra vita, richiede sicuramente molto più impegno ed energia del semplice “agirla”. Abbiamo sufficiente motivazione per mettere in gioco completamente noi stessi, costi quel che costi, e soprattutto, quanto della nostra vita e del nostro tempo siamo disposti a spendere per questo lento risveglio?    

 

Storia di una guarigione miracolosa di Ludovico Petroni

Ero appena uscito da un ritiro a Wat Kow Tahm, ed avevo trovato un piccolo bungalow sulla spiaggia dove avrei passato alcuni giorni di mare. Conobbi una ragazza tedesca, di cui neanche ricordo il nome. Ci mettemmo a ragionare del più e del meno e, come spesso accade, venne fuori una comune pratica buddista. Lei seguiva gli insegnamenti di una certa corrente Mahayana in Germania. Mi raccontò che anni prima era stata in fin di vita per una strana malattia. Era finita in coma per una qualche malattia al cervello. I medici non sapevano farsi un idea di quale fosse il problema, e disperavano ormai di poterla salvare.  Comunque consentirono che il Lama suo maestro le potesse rendere visita. Questi sedette al suo capezzale, salmodiò misteriosi mantra per qualche tempo e se ne uscì. Dopo poco la ragazza guarì in un modo che potremmo definire miracoloso. Passato qualche tempo, nuovamente la ragazza finì in coma all’ospedale per il solito indiagnosticabile male, ed ancora il Lama accorse in suo aiuto e le “salvò la vita” una seconda volta.

Straordinario! Il potere di questo Lama deve essere stato veramente straordinario.

Riflettei un po’ sulla incredibile storia  alla luce delle recenti esperienze di ritiro in cui la riflessione Sulla Morte avevano avuto un ruolo rilevante. Presto capii che c’era qualcosa di improprio in tutta la storia: tutti moriremo. Tutti gli esseri che sono vissuti sono passati. Tutti coloro che sono in vita ora moriranno, e con loro anche io, e prima o poi, anche la ragazza tedesca, nonostante la protezione del suo Lama. Da questa prospettiva è improprio dire “salvare la vita”, nessuno può assolutamente “salvare nessuna vita”, sarebbe semmai più opportuno dire “ritardare la morte”, oppure “prolungare la vita”.

Rincontrai la ragazza e le chiesi se da questa nuova prospettiva fosse più importante la possibilità di avere “salva la vita” oppure la possibilità di imparare a morire, di imparare ad accogliere con profonda serenità la morte e quindi anche tutto ciò che la precede e che chiamiamo vita.

Chiaramente anche lei capì che la seconda ipotesi era più importante… di gran lunga.

 Penso che sia questa la giusta prospettiva da cui considerare la nostra pratica: un qualcosa di più importante di avere “salva la vita”.

A volte mi è capitato di ritrovarmi troppo indaffarato, di essermi sobbarcato troppi impegni e di dover compiere delle scelte che comportano dei “tagli”, eliminare qualche impegno, qualche hobby, qualche impegno sociale o sportivo. Tempo fa’ ho dovuto rinunciare al Tango argentino, e tra il Tango e il Dhamma la scelta è stata veramente poco lacerante.

 

 

AMICIZIA: dimensioni di un’esperienza  di R. Savini

 

AMICIZIA tra più persone

Talvolta mi sembra di essere incapace a “stringere” amicizie. Vedo spesso persone che si ritrovano con gruppi ampi di amici per fare progetti e dar vita ad iniziative. Anche a me capita di partecipare a queste attività ma avverto che ciò che mi spinge in tali direzioni è un “motivazione temporanea”. Questo interesse si accende in vista di un progetto comune, sembra attivarsi ma però si conclude con il dissolversi di ciò che l’aveva animato. Un’escursione, un viaggio, una serata a ballare, una gara, un ritiro, possono servire ad aprire l’isolamento individuale, a creare la relazione. In questi casi è altrettanto facile dischiudersi come, al contrario, richiudersi nuovamente nel proprio isolamento. Infatti da un lato l’io può disciogliersi nella molteplicità del “noi-gruppo” e anche la relazione può allora coinvolgere e creare entusiasmi forti, dall’altro però il rischio della superficialità  può essere sempre latente. La chiusura su se stessi può svilupparsi in quella  “malattia egoica” che, spesso neanche notata, lede e sgretola la coesione del gruppo.

Spesso il gruppo può crearsi a partire da “motivazioni profonde”, radicate nei singoli e quindi ben diverse da quelle “temporanee” di cui si è detto; è chiaro allora che può crescere questa dimensione profonda, quell’incontro più ricco in qualunque progetto si intraprenda. In tali casi l’incontro assume una risonanza che coinvolge i diversi partecipanti ma che può rendere “meno dinamica” la relazione. L’interiorizzazione individuale, motivata e sincera, si scopre profondamente radicata nell’intimità del singolo e l’apporto di “compagni di viaggio” che condividono la spessa esperienza di silenziosa solitudine, di “spirituale egoismo”, può trovare difficoltà ad aprirsi con altrettanta spontaneità e immediatezza all’incontro con gli altri: il “saper tacere” non riesce a tradursi in un “saper scherzare”, la determinazione non diviene spontaneità giocosa.

 

AMICIZIA io-tu

Una diversa motivazione dell’amicizia è quella che si può stringere in modo più stabile tra un numero ristretto di persone che condividono atteggiamenti psicologici comuni, in cui prevale cioè la similarità. Lo stesso atteggiamento può manifestarsi anche per motivi opposti, la profonda differenza nel carattere può dar  vita all’esigenza di integrazione.

In entrambi i casi capita di passare insieme un “tempo senza confini”, dimenticandosi delle propria individualità, integrandosi pienamente.

Questi livelli dell’amicizia mi sono sempre risultati difficili. Pur provando una profonda simpatia per questo o quell’amico, spesso avverto dentro di me, qualora si esaurisce un certo livello di conversazione, una sottile ansia nel cercare un’altra tematica o qualche altra sollecitazione che sia capace di rivitalizzare la conversazione e con essa il contatto interpersonale. Da un lato questa sensazione potrebbe essere un’ottima occasione per fare quel “salto” verso un approfondimento interiore, dall’altro invece potrebbe spingerci a far riemergere tutta quella rete di parole-immagini-sensazioni che riconducono alla superficialità relazionale.

Sembra naturale che questo problema scaturisca dalla difficoltà  a vivere con spontaneità i “diversi momenti” del rapporto, ad aprirsi completamente all’amico, come capita invece ad una persona con cui si è in relazione da più tempo, allora i silenzi sono accettati con spontaneità e naturalezza. In certe relazioni a due può capitare che il rapporto diventi più difficile, che emergano momenti di silenzio tali da esprimere indifferenza più che condivisione.

Quel “vuoto” che si crea nel dialogo può permettere di confrontarsi con uno dei tanti volti con cui l’ansia si manifesta: la difficoltà a superare la distinzione io-tu attraverso il dialogo. Anche se in certi momenti questo “abisso relazionale” sembra superabile, lascia però facilmente un margine che scaturisce dalla “fluidità” del rapporto stesso. L’io proprio e quello altrui possono sprofondare nella solitudine di una individualità estremamente povera.

Un’occasione importante è quella di “accorgersi” di questo baratro interpersonale e, anziché sfuggirne il ghiaccio o volerlo superare artificiosamente, prendere coscienza che proprio in questa dimensione il rapporto io-tu può veramente acquisire un significato diverso. Il significato relazionale non risiederebbe nè nel mio “io” né nell’altrui “tu”, bensì proprio in quello spazio che è vero che separa da un lato, ma dall’altro unisce.

In alcune esperienze di forte dolore, la comune condizione può più spontaneamente disciogliere le resistenze individuali e aprire spazi di solidarietà in cui l’io-tu si trovano abbracciati nell’esperienza fortissima dell’ “essere-insieme”. Nulla garantisce che ciò accada sempre e necessariamente, basta  però che uno degli interlocutori si sia confrontato con la propria interiorità e con la sua connessione con l’ansia relazionale io-tu-noi, che le divisioni divengano meno tenaci e più facilmente, anche se spesso per poco, si disciolgano. Il “parlare di sé” in condizioni di grave malattia mette a nudo tutta quella rete di progetti che sovraccaricano l’io coinvolto dal “fare” esteriore. Il confronto con l’altro può aiutare entrambi ad accorgersi che qualcosa scricchiola nelle proprie certezze: sono proprio le resistenze dell’io ad aprirsi a ciò che lo pervade dentro e fuori da sé. Si apre lo spazio al di là di ogni confine, al di là di ogni parola. Emerge quel gesto, quella stretta di mano, quell’abbraccio che è condivisione. Da questo “silenzio che unisce”, nonostante il rumore del mondo e quello che pervade la mente, può sgorgare, sorgente riscoperta, un sorriso  che non è contingente, un entusiasmo che è fiducia. Può emerge la gioia del partecipare insieme, attimo per attimo, ad un’avventura che non richiede viaggi in Paesi lontani o attività spericolate, ma l’accorgersi che, qualunque cosa si faccia, siamo immersi nel “gioco del vivere”, ove ogni momento sprigiona la propria ricchezza. Soprattutto quando ci si trova al confine della vita, quando la malattia sembra fermare quella ruota che gira, ci si può accorgere, senza scampo, che nella povertà dell’attimo vi è l’entusiasmo sconfinato del Tutto.

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