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Trimle lug – sett 2004 n° 3 Anno VI

 

Sul Dolore: due ali per il volo   

di Ludovico Petroni

 Ogni crescita spirituale dovrebbe essere bilanciata.

In questi nuovi limiti dovrebbe stemperarsi la tinta più in sintonia con la nuova presenza alla Nobile Verità dell’esistenza di Dukkha (il Dolore). La tinta calda della Compassione, già equipaggiata dal germe della liberazione: in questa nostra valle di lacrime c’è una via d’uscita.

Forgiata dalla Giusta Comprensione di quanto Dukkha sia universalmente onnipervasivo, la nostra Compassione sarà aperta ma salda. Nessun evento sarà sorprendente ed inatteso al punto da spazzarci via in rivoli di angoscia incontrollabile e di disperazione.

E in questo tepore, ove i cuori sono in sintonia, i conflitti stemperati, l’amarezza dell’avversione dolcificata, io ho trovato il più sicuro dei rifugi, la scoperta più rilevante di che cosa sono nel mondo.

Senza pericolo, è divenuta il mezzo per l’esplorazione di tutte le direzioni. Ciò che credo di essere, ciò che sono stato e ciò che sarò. Verso tutte le direzioni della mente, ove dimora chi mi ha generato, chi mi ha amato e chi no. Verso amici, parenti, nemici, la tabaccaia, il collega di lavoro. Chi mi piace e chi mi assilla. Coloro con cui ho condiviso e coloro che non ho incontrato mai, chi ancora si dibatte e chi ci ha lasciato. Verso tutti gli esseri visibili e invisibili, le piante e il fantasma che vive in questa casa nel bosco. Verso me stesso impaurito da un incubo notturno e verso tutti i personaggi in esso coinvolti. Verso me stesso irrigidito nella mancanza di Compassione e verso tutti gli altri cuori che una ferita ha sigillato in un bozzolo di indifferenza ed egoistica malvagità.

Che questo tepore del cuore filtri nella vita quotidiana come un’inondazione che non lascia sacche asciutte, così che, essendo in confidenza col mio più intimo dolore, sia in confidenza anche col profondo dell’animo altrui, nel tepore amorevole della sintonia dei cuori, liberi da conflitti, dal risentimento e dall’animosità.

Per vivere faccio il muratore, non sempre, e non per tutti. Spesso lavoro da solo, a volte a contatto con altri.

Il mantenere vivi i propositi basilari dell’Equanimità in azione diviene per me molto impegnativo in un contesto di ordinaria fatica lavorativa, tanto che a volte mi sembra impossibile distinguere se l’impronta sensoriale prevalentemente percepibile sia attribuibile solo alla fatica fisica, o sia già infiltrata dall’avversione più cupa. Purtroppo mi diviene difficile mantenere aperta un po’ di buona disponibilità, ma sinceramente vorrei riuscirci con tutto quel poco cuore che mi rimane.

Qualche tempo fa ho lavorato con una persona più giovane di me. Facemmo amicizia e, nello slancio iniziale della nuova conoscenza, gli chiesi della sua famiglia. Mi rivelò, con gli occhi bagnati, di un evento dolente che aveva segnato la sua vita recente. Quando ancora vivevano in una comune isolata sulle montagne, un paio di anni prima, la sua compagna era finalmente rimasta incinta. Un giorno lei si sentì male. Con difficoltà riuscirono a portarla all’ospedale più vicino, ove partorì due gemellini di sei mesi che vissero solo alcuni giorni in incubatrice.

Penso che questa sua rivelazione sia stata un raro momento di vera sintonia tra noi. Ma rimase un momento isolato. Nella fatica e nello stress del lavoro, i vecchi atteggiamenti stereotipati grossolani e maschili presero il sopravvento, dando adito ad avversioni, incomprensioni, musi lunghi.

La cosa mi addolorava molto, anche perché, in parte, mi sentivo responsabile per questa degenerazione.

Feci in cuor mio il proposito di non litigare almeno. E se così è stato, se è stato evitato il conflitto palese, penso che in parte lo si debba anche a quell’isolato momento di penosa condivisione iniziale che non si è più ripetuto. Un’infiltrazione della Compassione nel mondo della fatica quotidiana.

Forse è impossibile ponderare tutti i benefici dell’attitudine Compassionevole. L’effetto di una parola  che sgorga da un luogo di compassione si rivela quasi miracoloso, come la bellezza della connessione col chiunque di turno, quando si innesca anche il minimo spunto di Compassionevole Comprensione.

 

 Sul Dolore: coltivare semi di mostarda    

di Ludovico Petroni

              L’afflizione tocca il suo culmine in sincronia con il massimo picco dell’egocentratezza: noi siamo unici sofferenti, separati e speciali per quello che stiamo provando in una totale identificazione e attaccamento concreto ed impermanente che aliena la verità ed alimenta la rimozione. Ciò viene magistralmente illustrato in una famosa storia Buddista che indica nella percezione dell’universalità di dolore e morte la giusta terapia all’afflizione abbagliante e alla conseguente rimozione della verità.

Kisagotami perde la testa per la morte improvvisa del suo unico figlio maschio. Accecata dal lutto, rifiuta di accettare la verità e,  col cadavere del piccolo in grembo, si aggira per le case del villaggio in cerca di un dottore. Finchè non incontra il Buddha , che acconsente a “curare l’afflizione”, senza specificare come l’unica afflizione attualmente esistente fosse quella di Kisagotami. Chiede alla povera donna di recuperare dei semi di mostarda da qualche famiglia del villaggio dove non sia mai morto nessuno. Kisagotami si aggira casa per casa solo per scoprire come la morte abbia visitato ogni famiglia e, per questa acquisita onnipervasività del lutto, il suo personale dolore si placa e lei rinsavisce.

Più il dolore è di tutti e meno lo sentiamo nostro.

 

E con questo ho abbondantemente tracimato oltre i limiti che mi ero prefissato (articoli precedenti: vedi n° 3-4 V anno 2003; n° 1-2-3 VI anno 2004)

 Spero che il lettore perdonerà  le cose che non sono piaciute, del resto il piacervi non era particolarmente nelle mie intenzioni. Spero anche che vogliate prendervi cura di quanto può esser risuonato in modo interessante dentro di voi.

Chiedo a tutti umilmente scusa per aver lasciato esprimere questo cuore, ancora così lontano dalla mansuetudine senza confini, dalla purezza di attenzione a fatica immaginabile, del cuore di Colui che si è lasciato indietro avversione, desiderio, delusione ed ansia.

Che sia chiara la luce del Dharma, dolci i suoi frutti su questo sentiero, libero dai pericoli, dalla paura e dall’incertezza.

Che sia incoraggiante quel sempre più acuto senso di fratellanza tra viaggiatori che non tornano mai per la stessa strada.

 

 

Amore incondizionato – amore condizionato 

di Lucia Modellato

 

Se amiamo incondizionatamente, se diamo incondizio-natamente, non abbiamo aspettative e non siamo delusi dalle reazioni altrui. E di questo ne so qualcosa! Ho passato ¾ della mia vita a pretendere più attenzione, più amore, più amicizia, più tenerezza e più rispetto. Io davo queste cose in abbondanza, ma il mio dare era sempre inquinato dall’esigere, in una certa misura, la reciprocità; non che io  misurassi con il bilancino il dare-avere, ma ero spesso estremamente delusa di fronte all’insensibilità, all’egoismo, all’ingratitudine altrui.

L’amore incondizionato non ha pretese e di conseguenza non è soggetto a delusioni.

Dietro l’amore condizionato spesso si nasconde una profonda insoddisfazione spirituale, un vuoto interiore, a volte il sentimento di non essere desiderati o amati abbastanza; non di rado c’è alle spalle un’infanzia povera d’amore, con la  sensazione persistente di una tale insicurezza interiore da avere una costante paura di perdere qualcuno, così che si è incapaci di dare amore.

In questi anni di ricerca, ho riscontrato che moltissime persone sono affette dall’incapacità di amare, e mi permetto dall’alto della mia età (e della mia esperienza di grande e inutile sofferenza) di suggerire, a chi si riconosce in queste caratteristiche, di fare di tutto per guarire al più presto da questa sofferenza, mettendo a frutto la propria forza interiore e le proprie potenzialità, ed imparando finalmente ad amare senza condizioni.

 

Solo paura   

di Rodolfo Savini

Cerco le radici profonde di questa violenza così tremenda che si rovescia su di me, su di noi, dalle relazioni interpersonali, alle notizie televisive, dalle tensioni sociali, ai conflitti religiosi, economici e politici e quanta ancora ne potrebbe esplodere.

Un brivido gelido di paura, una paura radicale che suscita per risposta stratagemmi ormai sperimentati per soffocarla e reprimerla. Sappiamo che lasciarsene trasportare non è una novità, è quello che sempre abbiamo fatto nel corso della nostra storia: una storia in cui la pace sembra un’eccezione, travolta da un mare di guerre.

Costruiamo i nostri “muri” fatti di regole, di comportamenti stereotipati, di leggi. Possiamo essere così acuti nel costruire queste difese che talvolta possono sembrare veramente efficaci contro le nostre e le altrui aggressività.

Nelle democrazie occidentali sembra che, lungo il difficile e aspro sentiero del progresso, siano state via via debellate queste paure e che l’uomo e le società abbiano acquisito oggi veramente il senso della libertà e del rispetto reciproco. Purtroppo queste ombre continuano a persistere nello spazio oscuro della nostra coscienza e dei nostri popoli e da lì limitano le  potenzialità di apertura, di un confronto sincero, sfalsano la visione delle cose, ma intanto logorano la nostra presunzione.

Non possiamo aspirare ad una pace autentica, alla pace come valore, reprimendo e soffocando una parte di noi, come non ci riusciremo commettendo le più atroci violenze su chi la trasgredisce. Tutto ciò che costruiremo, dentro o fuori di noi, avrà sempre purtroppo un sapore “formale”, qualcosa di precostituito, un “modo d’essere” da applicare ad una realtà che tuttavia ci sfugge.

L’esperienza interiore aspira a veder emergere qualcosa di nuovo rispetto a ciò che nasce già scontato, qualcosa che non scaturisca da quell’io egoista, individuale o sociale che sia. Come si spengono facilmente, però, queste piccole luci di libertà se non si ha il coraggio impossibile di “fare i conti” con tutte le immagini, con tutti gli impulsi violenti e aggressivi (ma anche fiacchi e remissivi) che soggiacciono dentro di noi.

Fare i conti non vuol dire necessariamente dare uno sfogo a queste pulsioni, come già altre volte abbiamo fatto e faremo, potrebbe volere dire anche avere la capacità  di “lasciarle uscire, osservandole”. Quest’esperienza procura sofferenza, il dolore di togliere, al di là di ogni anestesia, quel nodo che soffoca la nostra parola, farlo passare attraverso la nostra coscienza, avvertirne tutto il disgusto che porta con sé, e vomitarlo. Senza smettere di contemplarne il segreto che nasconde: a vedere bene forse quel nodo in gola potrà essere un nuovo carbone, un nuovo petrolio, una nuova fonte di energia che con tutto il suo cattivo odore potrà far andare il mondo lungo quei sentieri che solo di rado ha finora percorso.

Un’aspirazione impossibile per quella coscienza che, così povera, viene sempre più spesso soffocata dai “devi”, rapita dal “tempo”, travolta da una miriade di “informazioni”.

Può darsi che questa sia la più affascinante delle scommesse con la nostra età, sappiamo che se perderemo ci troveremmo semplicemente immersi in quella realtà in cui è una tremenda illusione perdere o vincere e in cui, in ogni caso, vi saremo rimasti, oppressi dalla nostra stessa superficialità.

Riuscire a sciogliere quel nodo  è trovare energia d’amore, di comprensione, di compassione per tutti quegli esseri che ne sono stati soffocati, più o meno ignari. Vuol dire ridare libertà, sciogliere catene che sembravano indissolubili. Laddove tutto sembrerebbe privo di linfa, vedere fiorire volti, sorrisi, abbracci: un big-bang fatto di amore che trasforma, non di ignoranza che distrugge.

Ecco il temporale sciogliersi in nubi che fanno trasparire una luce che riscalda, che incoraggia, che sospinge a proseguire. Accade “qualcosa” che è troppo grande per l’io e per il mio, che sfugge a regole, leggi, convenzioni sociali. Quella colla del samsara che, come mosche, ci appiccica all’ignoranza sembra perdere consistenza.

Avere la semplicità di guardare in questo modo è forse la più grande benedizione che la vita possa donarci. Accorgerci che le nostre mani sono così vuote che non vi rimangono, né violenze, né paci, né aggressività, nè amori, né eserciti, né chiese: non tratterranno nulla di ciò che è conosciuto e proprio perciò si accorgeranno stupite di essere ricolme di ciò che è sconosciuto: di quell’equanimità che sola può donare pace.

L’orrore di guerre, violenze, omicidi non potrà scomparire da questo mondo: è il frutto inarrestabile dell’ignoranza che ci ha sospinto dai tempi dei tempi e che ancora  persevera: “Tutto è dolore”. Sì, drammaticamente resterà, ma sempre più aperto sarà il varco per chi si accorgerà che la compassione sa capovolgere l’immane peso del samsara e trasformare, ciò che da sempre ha legato, in quella comprensione di cui tutto ha una tremenda e inesauribile sete.

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