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Trimle lug – ago 2005 n° 3 Anno VII

 

Impedimenti, oltre ed altroequanimità

di Ludovico Petroni

Prosegue dal trim. n° 1-2 del 2005

  Upekkha è il termine Pali per la qualità mentale allo sviluppo della quale direttamente contribuisce l’apertura agli “impedimenti” e l’intima confidenza che ne consegue.

La nostra lingua non sembra essere sufficientemente sofisticata per poter tradurre con una singola parola molti dei termini usati in Pali per definire certe condizioni – qualità – caratteristiche della mente. Per via del termine inglese Equanimità, la traduzione italiana di Upekkha con Equanimità sembra di scarsa comprensibilità. Forse la singola parola italiana che può meglio riferirsi alla condizione di fresco benessere che prescinde dall’ottenere o meno ciò che si vuole è Serenità; ad indicare una capacità di mantenere un certo tranquillo equilibrio nonostante conclamate difficoltà e che naturalmente tende a porsi in una posizione equidistante rispetto alle ordinarie reazioni nei confronti di ciò che piace o che non piace. La Pazienza, oltre i cui limiti egoisticamente lasciamo sorgere preoccupazione ed insofferenza, è forse la qualità ad essa più vicina. Bene, Equanimità “Upekkha” è una Pazienza senza limiti. Ciò detto si potrà capire quanto facilmente questa qualità mentale così inusuale a queste latitudini possa esser confusa con l’indifferenza, al punto che anche famosi insegnanti di meditazione hanno usato in qualche frangente tradurre Upekkha come indifferenza. Indifferenza è classificato come il “nemico vicino” di Upekkha, cioè come qualcosa che sembra ma non è. Di indifferenza ne abbiamo anche troppa in giro, e il Buddha non ha certo messo in moto la ruota del Dhamma per spanderne ulteriore. La differenza consiste nel fatto che in indifferenza c’è un “non curarsi”, mentre in Upekkha c’è una venatura di Compassione. Come del resto nella Compassione matura c’è una venatura di Equanimità, come residuo equilibrio che ci consenta di partecipare al dolore ma ancora di trovare una via di uscita, un’isola di freschezza che argini la disperazione senza più controllo, il rinsavimento che lava via le lacrime per la riconosciuta universalità di quell’angoscia altrimenti sentita come “mia esclusiva”. Poiché è possibile coltivare, con una pratica improntata allo sviluppo di Concentrazione e poco equilibrata dalla “Giusta Comprensione” e dalla Compassione/Metta, una penosa condizione di separazione in indifferenza  e siccome il rimedio per il gelo che attanaglia il cuore di più di un praticante non si trova in tutte le farmacie, mi parrebbe opportuno che si giungesse salubremente alla pace di Upekkha accedendovi tramite Compassione per tutti gli esseri. Augurando che tutti ed ognuno di noi, nella silenziosa comprensione dell’universalità delle pene di esser nati, cominciamo a trovare un po’ di pace, nella speranza che quanto sgorga dal giardino del Dhamma, per quanto così malamente da me assemblato,  possa risultare benefico per il cammino procederei a considerare singolarmente, nei prossimi trimestrali de La Pagoda, i cinque impedimenti che sono senso di desiderio, avversione, sonnolenza e torpore, preoccupazione ed ansia, dubbio.  Proseguirà nei numeri successivi con l’esame dei diversi impedimenti, a cominciare dal desiderio)

      

La Rivelazione di Buddha: alcuni Testi antichi sull’equanimità 

accompagnati da brevi riflessioni   di Rodolfo Savini

 

 Il discorso del rinoceronte

Suttanipata, 3,73   -    p. 855

“Praticando nei momenti appropriati la gentilezza amorevole, l’equanimità (upekkha) e la compassione, la liberazione e la gioia partecipe, da nulla al mondo ostacolato, proceda solitario come un rinoceronte”

         Il racconto del ricordo delle vite precedenti

Visuddhimagga, 13, 40   -    p. 80

 “Coltivate, o mortali, la benevolenza, la compassione, la gioia partecipe e l’equanimità (upekkha), abbiate cura di vostra madre, di vostro padre, e in famiglia onorate chi è più anziano di voi” 

  Queste quattro “Dimore divine” Brahmavihara (benevolenza,  compassione, gioia partecipe e l’equanimità) ci introducono al contesto in cui l’equanimità può alimentarsi e alimentare la nostra interiorità, il rapporto con il mondo esterno con le diverse circostanze che ci presenta. In questo modo si acquisisce la sensibilità ad avvalersi di “mezzi abili”, tali da produrre azioni appropriate e salutari. Tra queste Buddha ricorda il rispetto, prima di tutto verso quell’età che oggi trascuriamo; vista come un inciampo che non insegna più nulla, o forse solo il dover pagare assistente o casa di riposo. Una giovinezza che pretende in tutti i modi di restare tale e che vede, nel correre degli anni, solo un peso di cui disfarsi. Scivolamento verso la povertà di un ospizio

  L’equanimità

Il grande discorso della dottrina della brama

Majjihima Nikaya , 38   -    p. 42

“Costui, veduta con la vista la forma, sentito con l’udito il suono, odorato con l’olfatto l’odore, gustato con il gusto il sapore, toccato con il corpo un oggetto tangibile, conosciuto con la mente l’oggetto della mente, non si attacca allora  alle forme, ai suoni, agli odori, ai sapori, a ciò che è tangibile e agli oggetti della mente gradevoli, né schiva quelli spiacevoli; consapevole del corpo, egli non vive più senza chiara coscienza, senza conoscere la liberazione della mente, la liberazione della saggezza, in cui gli stati mentali negativi e nocivi cessano senza residuo. In tal modo egli non è più in balia di contentezza e scontentezza e, qualsiasi sensazione provi, – sia essa piacevole, spiacevole o neutra –, non l’approva, non la saluta, non vi si attacca e, così facendo, cessa in lui il godimento. Dunque dalla cessazione del godimento segue la cessazione dell’appropriazione, dalla cessazione dell’appropriazione, la cessazione del divenire; dalla cessazione del divenire, la cessazione della nascita; dalla cessazione della nascita la cessazione della vecchiaia e della morte, della pena, dei lamenti, del disagio, dell’angoscia e della mancanza di serenità. E così si ha la cessazione di tutto quest’aggregato di dolore.

O monaci, in breve, ritenete tutto ciò come la liberazione mediante l’annientamento della brama; considerate il monaco Sati, il figlio del pescatore, impigliato nella gran rete della brama, fra i lacci della brama.

Così disse il Beato. Contenti i monaci approvarono le sue parole”

  Certo che tutto ciò che piace e non piace, o ciò su cui siamo incerti e dubbiosi ha un varco dentro di noi; ai nostri sensi si aggiungono le molteplici attività mentali, che conducono l’uomo verso il legame o verso la liberazione da tale legame, verso una condizione di crescente confusione-ignoranza o verso una di non-dipendenza, di libertà dall’attaccamento/avversione, di liberazione.

Su qualcosa cade un velo, sul mondo di ciò che può nascere e quindi inevitabilmente morire, ma allo stesso tempo se solleva un altro su ciò che è senza-morte, il nir-vana. Tramonta l’attaccamento a ciò che è tangibile, a sensazioni e oggetti percepiti come spiacevoli, ma al contempo anche su quelli d’aspetto opposto.

Queste formazioni mentali si sgretolano senza residuo. Buddha, con la sua esperienza, dice che allora la mente non sarà più in balia di contentezza e scontentezza. Quel godimento superficiale, quell’appagamento (sempre minacciato dal suo opposto) nasconde un forte senso di attaccamento, il “lo voglio” è nutrito dalla presa dell’io-mio, che tradotta ci dice: “me ne voglio appropriare”. Pretendo, che resti o divenga mio (se mi alletta, il contrario se lo rigetto) ciò di cui ora mi accorgo, ciò che è sorto nella mia mente attraverso i sensi., ciò che è apparso, dimentico che anche questa presa invecchierà sino a perire, lasciandomi nuovamente nella mia solitudine inappagata.

Questa brama lacerante con cui ci confrontiamo quotidianamente già nel piccolo è ciò che, dice Buddha, ci priva di serenità. La mancanza di serenità è mancanza di pazienza nei confronti delle nostre incertezze, è assenza di quella giusta comprensione che permette di vedere ciò che accade, è oscuramento dell’equanimità. Qualcosa serve, ogni giorno, nei molteplici piaceri e disappunti. Serve la capacità di vedere, anche solo per un istante, per il tempo di contare dieci respiri, o sette, o anche solo tre, ciò che accade prima che sorga, con irruenza, il peso dei miei comportamenti stereotipi, lo scontato delle abitudini. Tutto comincia a trasformarsi allora e i miei sensi sono meno dipendenti dai variegati colori dell’appariscenza e così le mie attività mentali, meno soggette al timore delle tinte più oscure o al fascino di quelle più sfavillanti. Serenità, equanimità,  grande comprensione si diffondono in questi spazi di libertà. e, inavvertite, compiono la loro opera.

    L’equanimità del Tathagata

Il discorso dell’esempio del serpente

 Majjihima Nikaya, 22   -    p. 246

“O monaci, così dicendo, così proclamando, alcuni asceti o brahmana mi hanno rappresentato erroneamente, senza fondamento, vanamente e falsamente nel modo seguente: “L’asceta Gotama è uno che svia dalla retta strada; egli insegna l’annichilimento, la distruzione, la non esistenza di un essere vivente”. Poiché, o monaci, io non sono né un nichilista, né proclamo il nichilismo, alcuni asceti e brahmana mi hanno rappresentato erroneamente, senza fondamento, vanamente e falsamente hanno detto: “L’asceta Gotama è uno che svia dalla retta strada: egli insegna l’annichilimento, la distruzione, la non esistenza di un essere vivente”.

O monaci, in passato e ora, quello che io insegno è una cosa soltanto: la sofferenza e il superamento della sofferenza. Se altri, o monaci, abusano, oltraggiano e rimprovero il Tathagata per questo motivo, egli non prova in sé alcuna rabbia, astio o scoraggiamento. Se altri poi onorano, rispettano, riveriscono e venerano il Tathagata per questo motivo, egli non prova in sè alcuna forma di diletto, giubilo o esaltazione. Se altri onorano, rispettano, riveriscono e venerano il Tathagata per questo motivo, egli, al riguardo, pensa così: “essi si comportano così verso di me in virtù di quello che prima hanno pienamente compreso”.

Perciò, o monaci, se altri abusano di voi, vi oltraggiano e vi rimproverano, voi, al riguardo, non dovete provare alcuna forma di rabbia, astio o scoraggiamento. Se altri poi vi onorano, vi rispettano, vi riveriscono e vi venerano, voi, al riguardo, non dovete provare alcuna forma di diletto, giubilo o esaltazione. Se altri vi onorano, vi rispettano, vi riveriscono e vi venerano, voi, al riguardo, dovete pensare così: “Essi si comportano così verso di noi in virtù di quello che prima hanno coscientemente compreso”.

  Nichilismo e annichilimento. Dissodare l’incolto occorre battere forte in terra. La crosta si lacera, sembra che di lei più nulla rimanga. Nichilismo, annichilimento. Necessità perché qualcosa di nuovo venga seminato, qualche pensiero appropriato, qualche azione salutare.

Azione e reazione. C’è chi insorge oltraggiando, c’è chi esalta venerando. La rabbia, l’astio o lo scoraggiamento potrebbero sorgere, da un lato, come dall’altro le formazioni mentali del diletto, del giubilo o dell’esaltazione. Di qua e di là l’io-mio viene travolto; le radici dell’attaccamento all’immagine di sé vengono scosse perchè si reagisce sentendosi feriti o perché ci si gonfia nell’autoappagamento.  Può anche accadere, nel primo caso, che quel giudizio svilisca ancor più la propria identità confermando ulteriormente la propria inettitudine (con un ulteriore aggravamento di quella mancanza di energia, che invece, coltivata, costituirebbe un importante fattore di illuminazione).

Equanimità, serenità conquiste di un “io che si spoglia di sé”, che da protagonista indiscusso, diviene un io che attraverso forme, suoni, odori, sapori, tatto e attività mentale sa semplicemente meglio guardare e comprendere.  Maestri, questi ultimi, capaci di condurlo, paradossalmente,  al dissolvimento di ogni resistenza egoica.

 

La notte del risveglio

Il discorso sui due generi di pensiero

Majjhima Nikaya, 19   -    p. 390

“(…) entrai nel terzo stato di assorbimento meditativo, e sentii nel corpo quella letizia per cui i nobili dicono: “Equanime, consapevole e dotato di presenza mentale, egli lietamente dimora”. Dopo di ciò, cessata la letizia e cessato il dolore, scomparsi la felicità e lo scoramento, entrai e dimorai nel quarto stato di assorbimento meditativo, caratterizzato dalla purezza dell’equanimità (upekkha) e della consapevolezza e privo di dolore e di letizia”

  Buddha si apre raccontando i diversi stati di assorbimento meditativo avvenuti durante il suo grande risveglio. Nel primo, pur nell’isolamento della mente dagli oggetti dei sensi, ancora permane il pensiero discorsivo. Nel secondo la gioia è sorretta dall’assenza di pensiero discorsivo. Nel terzo emerge l’equanimità ancora pervasa da beatitudine e chiara consapevolezza. Nel passo ulteriore svaniscono anche piacere e sofferenza, valicati da purezza ed equanimità.

Da un’indifferenza per sé e per il mondo lo sguardo del Risvegliato trabocca in comprensione che non parteggia, in equanimità che tutto sostiene.

Nel perenne rumore tra chi prevarica e chi è sopraffatto, tra chi vuole e chi rifiuta, tra ciò che pretendo e ciò che rigetto, la sua pace cala come pioggia che rinfresca, come pioggia che nutre, come pioggia che lava. Compassione, benevolenza, gioia partecipe, equanimità: le quattro “divine dimore” che, auspichiamo, possano divenire anche le nostre.

 Il numero di pagina dei passi scelti citati si riferisce a La Rivelazione del Buddha volume I  Testi antichi, Mondadori (I Meridiani), 2001.

   

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