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Trimle ott – dic 2005 n° 4 Anno VII

 

Impedimenti 

di Ludovico Petroni

 

In quel tempo risiedevano in una caverna posta in alto su di una rupe molto tranquilla, piuttosto lontana dai sentieri degli uomini e di difficile accesso.

Da lassù, facilmente il Buddha ed il fido Ananda potevano sapere con largo anticipo degli eventuali visitatori che tentavano la scalata e che raramente potevano disturbare i due asceti impegnati nella loro reclusione dalla frenesia del mondo e dei suoi stimoli.

In una bella mattina tranquilla in cui tutta la natura, con i raggi del sole ancora tiepidi, con i canti degli uccelli ed i fruscii delle foglie sembrava voler partecipare alla serenità della mente, Ananda scorse niente di meno che Mara che stava salendo.

Mara è l’impersonificazione del male, il cui ruolo è destabilizzare, disturbare con i suoi trucchi la mente degli asceti e avvelenare la vita degli uomini. Già era stato sconfitto con tutte le sue armate nella notte dell’illuminazione, ma mai si darà per vinto finchè il respiro fluirà.

Allarmatissimo, Ananda  si rivolse all’Illuminato: “Signore, signore, Mara sta arrivando, prepariamoci a fuggire o a combatterlo”.

Il preoccupato impeto del povero Ananda fu accolto nella freschezza e nello spazio ormai consueto lasciato libero dai pensieri, dagli attaccamenti, dalle afflizioni, purificato da una consapevolezza attenta e ormai costante: “Che il venerabile Ananda prepari del tè” sentenziò l’Illuminato.

E, ancorché intimorito, Ananda si preparò ad accogliere il loro peggior nemico come e meglio di quei visitatori che sporadicamente salivano all’eremo con le migliori intenzioni.

La tazza di tè spiazzò totalmente Mara. Rimasto ormai senza più appigli per scatenare le sue insidie, ben presto si ritrovò disarmato dalla benevole accoglienza e finì per confidarsi come un vecchio amico: “ Non crederete mica sia piacevole penetrare il cuore degli uomini con l’odio, con l’invidia e con l’avversione. Non crederete mica sia facile tenere acceso il fuoco del desiderio, dell’avidità, dell’inquietudine e della paura. Non crederete mica che mi esalti gettare la coltre del torpore perché il viandante non possa vedere il sentiero per la liberazione, o che sia semplice riuscire ad elaborare con successo le sottili esche che istillano dubbio ed incertezza nei cuori. Io non sono in pace mai!”

Certo che no.

Questa storiella può ben illustrare  quella che può essere la giusta attitudine da adottare nei confronti di qualunque stimolo o stato che coinvolga la mente in modo più o meno rilevante, sia durante i periodi di pratica meditativa formale che altrimenti.

Mi sembra importante saper riconoscere il tipo di condizionamento o pulsione attivo nella mente al punto da poter disturbare la formale pratica di sviluppo di concentrazione e consapevolezza. Per facilitare l’opera di individuazione, ciò che disturba la meditazione (e altresì inquina le nostre vite) è stato suddiviso in cinque categorie distinte e singolarmente più riconoscibili chiamate Nivaranas in Pali, tradotte con hindrances generalmente in Inglese.

Mi piace specificare che lavorare con le Nivaranas o hindrances è la chiave per far si che la propria pratica meditativa risulti efficace per migliorare la nostra vita quotidiana di comuni occidentali, che magari neppure aspirano a mete di liberazione finali.

Credo che attribuirle un nome adeguato per il modo in cui impareremo a trattarle sia un buon inizio. Adotterei quindi, preferibilmente, il termine “impedimenti” piuttosto che il termine “nemici”, che implicitamente evoca un moto ovviamente avversivo. “Impedimenti”, quindi, che magari contribuiscano alla nostra crescita introspettiva nell’impegno che metteremo per superarli, letteralmente penetrandoli e non “ostacoli” insormontabili, di fronte ai quali rinverdire il paralizzante motto “non ce la posso fare” e quindi bloccarsi.

L’attitudine a non opporsi avversivamente, nè a fuggire, come sarebbe impulsivamente avvenuto per il venerabile Ananda, sembra un moto generale e trasversale di tutta la pratica buddista, uno dei riflessi della cosiddetta Via di Mezzo, dove il “giusto sforzo” nella pratica è paragonato all’accordare uno strumento musicale, che emetterà buona musica solo se le corde non saranno troppo tirate nè troppo allentate. Oppure, come evidenziato nella parabola dell’asceta Siddharta, che mortifica il suo corpo in modo quasi terminale, finchè, giunto allo stremo, capisce che la sua pratica contemplativa sta degenerando e decide di interrompere l’eccesso del suo ascetismo accettando il riso e latte offertogli dall’umile pastorella Sujiata, senza la generosità della quale oggi saremmo una specie senza speranza. Proprio grazie a quel cibo  Siddharta troverà l’energia per la conquista della Liberazione finale.

Anche tutti i passaggi dell’ottuplice sentiero sembrano essere “giusti” nell’evitare gli estremi. Qualcuno ha paragonato il viaggio verso la liberazione alla discesa di un tronco lungo la corrente di un fiume. Il tronco entrerà nell’oceano solo se eviterà di impigliarsi in una delle due rive: l’avversione o l’accondiscendenza.

Nella pratica meditativa si cerca proprio di trattare ciò che ci “impedisce” di stare con l’oggetto di meditazione senza reagire con l’abituale risposta all’accondiscendere, magari lasciando che i pensieri e le fantasie che si affacciano alla mente prendano campo e senza che ad essi si risponda con opposizione, avversione, contrarietà, negazione.

La via di uscita è l’osservazione attenta di ciò che sta accadendo nella mente-corpo.Un turbine di pensieri negativi spazza via la nostra meditazione?! Benissimo, guardiamo cosa cova sotto: cosa c’è sotto quei pensieri, quali sensazioni si sviluppano in contemporanea, dove, in quale parte del corpo si sviluppa la tensione (ancora non so dire se nasca prima la sensazione o il pensiero, ma l’idea che una sensazione originaria spiacevole dia il via al turbine di pensieri avversivi mi intriga parecchio).

La scoperta di certe sensazioni rilevanti per quanto riguarda la loro interdipendenza con stati mentali cronici disturbati, magari avversivi , può aver luogo anche dopo una lunga pratica, come riferisce Dyane Rizzetto, che solo recentemente ha scoperto una sensazione spiacevole allo stomaco, tipo “sfregamento di carta vetrata”, che c’è sempre stato. Personalmente faccio un lavoro di fatica, la stanchezza mi si è abitualmente associata all’irritabilità, la rabbia, il malumore anche devastanti; forse l’ho sempre saputo, ma l’individuazione precisa delle sensazioni fisiche relative alle suddette circostanze è avvenuta solo a distanza di oltre dieci anni dal primo ritiro di meditazione e da almeno cinque dall’inizio di una pratica quotidiana continuativa. Comunque vada,  se prima o poi vi scopriste adatti a calarvi al di sotto del pensiero discorsivo e dei suoi intrighi, provate a ricercare quali sensazioni albergano proprio nel vostro cuore, nel centro di voi e, quando vi scoprite coinvolti in stati d’animo sottili al punto da non essere definibili a parole, cercate di riconoscerli per come si manifestano nel vostro cuore.

 

 

Dalla nascita alla morte: un spazio da colmare 

di R. Savini

 

Già avevamo familiarizzato con testi rivolti alla coppia e in particolare alla donna sul “parto attivo”. La gravidanza è un campo privilegiato di osservazione, che indubbiamente coinvolge con un’attenzione rinnovata e in un processo di crescita consapevole.

Ora l’attenzione viene attratta anche dalla diffusione di esperienze meditative e di testi su una “morte attiva”, cioè su un’educazione aperta a guardare la morte e su un  più  consapevole  accompagna-

mento spirituale del morente. Certo che la morte ha costituito una perenne minaccia non solo per ogni uomo, che la vive nella propria ombra dal momento della sua nascita, ma anche per ogni presenza vivente o inanimata che sia. Spesso però, nella nostra cultura pervasa da consumo ed efficienza, il morente, giovane o vecchio che sia, è stato a lungo relegato al margine, costretto a vivere individualmente la propria sorte, in solitudine. Anche se il morente minaccia, con la sua stessa presenza, i tracotanti modelli prevalenti, è oggi sempre meno un evento privato, avvolto da un dolore cieco; può anche diventare, ed è questo il nuovo spazio che sembra crearsi, una dolorosa esperienza sì, ma di apertura e di rasserenamento. Nel dolore si può scorgere quella stretta relazione con la vita, non dissimile da quella che accompagna la madre con il bimbo che ha in grembo. Il dolore di perdere qualcosa, il dolore di aprirsi a qualche altra. Tali mutamenti radicali cadenzano il ritmo nascosto della vita che nella nascita e nella morte emergono con la loro inevitabile natura. Mi sembra che su queste esperienze l’insegnamento di Buddha abbia gettato luce con le prime due Nobili Verità: “tutto è dolore” – “questa è l’origine del dolore”. Ogni qualcosa nasca è costretta a perire.

Lo sforzo che ci attende ora è quello di arricchire lo spazio vertiginoso che intercorre tra questi due momenti, tra la nascita del corpo e la sua morte; tra il bimbo che nasce e che altrettanto inavvertitamente scivolerà verso la morte.

Tra questi due estremi della nostra esistenza umana sembra che tutto sia pervaso da un ritmo implacabile e inarrestabile fatto di guerra e pace, di conflitto sociale e culturale, di rabbia e di ebbrezza, di tante gioie grandi o piccole e di altrettante delusioni. Questi momenti sono il paesaggio della nostra vita, sono le radure, i boschi, le steppe, le montagne e le voragini che la coscienza percorre e affronta, sono la bellezza nella sua fragilità.

Per vivere in questo equilibrio tra il nostro inizio e la nostra fine possono esserci d’aiuto le altre due Nobili Verità formulare da Buddha: “questa è la cessazione del dolore” – “questa è la via che conduce alla cessazione del dolore”. Soprattutto quest’ultima traccia un cammino, un sentiero verso una vita che non trascuri nulla, ma che da tutto tragga quel fuoco che la tempri. Tra il primo ieri e l’ultimo domani ci si potrebbe accorgere che vi è un “ponte” che li rende meno lontani. Anzi possono apparire sempre più vicini tra loro, man mano che uno sguardo attento se ne prenda cura. “Mi propongo di essere lì, insieme a tutto ciò che mi circonda”, ecco una determinazione che potrebbe aiutarci a stare in equilibrio sul ponte della nostra esistenza, in ogni suo piccolo attimo, qualunque coloritura esso abbia. Sappiamo ora dove disciogliere la “medicina dell’attenzione”. È lei che può discernere rigidità e conflitti nel loro inesorabile susseguirsi, nel loro apparire e dissolversi siano esse esperienze attuali, ricordi, aspettative. Tutti momenti tra loro lontani ma che, se si avvicinano e si incontrano, non possono farlo che insieme e nello stesso momento perché comune è ciò che li divide. Tutti barcollano infatti sul  “ponte dell’ignoranza più cruda”, nel riconoscerla nascita e morte perdono la loro identità, l’una nasconde in sé il seme dell’altra, quasi due facce di una medaglia in cui vi è inscritto il mistero della vita.

Forse è una follia, ma apprendere da ogni attimo vuol dire essere disponibili a gustare un sapore dimenticato. Conoscersi è colmare lo spazio abissale tra nascita e morte, è viverli nel loro perenne susseguirsi, è accompagnarli e sostenerli nel loro incontro. Nel mio abisso posso discernere l’abisso di ogni cosa animata o no; in ciò che mi circonda posso discernere il mio abisso. Colmare questo spazio che interiormente separa è colmare ciò che recide; è stupirsi che la ricchezza e la povertà di ogni esperienza può acquisire il senso più autentico sciogliendosi in questo mare grande come la più piccola goccia di vita.

   

Visione o confusione? 

Lettera firmata

 

Riflessioni a cura della Redazione

Nella lettera c’era l’ingiunzione di cestinarla, ma le parole scritte sono lì e non possono così facilmente tacere.

Muoversi nella realtà di oggi, pensare e agirvi presenta immense difficoltà perché non riusciamo più a fare della nostra piccola realtà “il mondo”. Sappiamo come le notizie trovino sempre più rapidi e diffusi canali di trasmissione, ma spesso, correndo così veloci, smarriscono il loro significato, altre volte si diffondono ovunque filtrate da grandi agenzie e allora c’è da chiedersi che senso abbiamo veramente le nostre letture. Verrebbe voglia veramente di gettare via tutto dal momento che la contraddittorietà è tale che non può essere più decifrata. Quindi o facciamo appello al dogmatismo che fa piazza pulita di ciò che esso stesso esclude, o facciamo appello ed accettiamo per vera quella “luce che dentro di noi” illumina una realtà in cui il rumore, ormai incrostato, riecheggia con fragili parole. Luce che non si perde, perché riesce a riflettersi anche sul più oscuro degli oggetti per tornare a sé come coscienza rinnovata.

Un pericolo ancor più rischioso si annida in questa seconda esperienza: dalla “luce interiore” rispunta l’arroganza, l’ennesima presunzione di un egoismo che vuole imporsi senza ascoltare ragioni. Nel messaggio di Buddha questa ingiunzione è sorretta da un altro insegnamento: “lavorate alacremente alla vostra liberazione”. Applicando l’uno e trascurando l’altro perdiamo il nostro equilibrio. La lettera fa riferimento a diversi testi (anche criticandone le traduzioni), ma andiamo avanti e sul finire di un testo delle Upanishad (Chandogya upanishad) si parla di due divinità Indra (signore degli dei celesti, i Deva) e Virocana (demone che si oppone a Indra) che andarono da Prajapati a porgli domande importanti per la loro comprensione della realtà.  Entrambi, dopo averne ascoltato l’insegnamento, vanno via “con il cuore contento”, ma mentre Virocana, si appaga della risposta e la prende per “la verità”, Indra,  riflettendovi, si rende conto che la risposta di Prajapati è ancora incompleta e oscura ed ecco che vi torna ponendo una questione più specifica e questo più volte. Esempi che potrebbero farci capire che su quella “luce a noi stessi” si debba necessariamente essere circospetti, accoglierla con acume e intelligenza. “Essere come bambini”  potrebbe costituire una qualità centrale che non si può smarrire, perderla vorrebbe dire percorrere la “via larga” dell’ignoranza. Insomma quella “luce a noi stessi”, che illumina la realtà con occhi puri, va coltivata con un amore senza misura, così delicato da non spegnere neppure la più lieve fiammella.

Tra i tanti sì! e no! che suscitano queste righe ci sembra importante sottolineare una piccola gemma che potrebbe, forse, dare i suoi frutti ma lasciamo a voi il cercarla, potrebbe essere uno dei tanti giochi che il tempo ci regala

 

La lettera, tante parole che vorrebbero tacere

Oggi ho preso tutti i miei appunti interreligiosi  e me ne sono disfatta in blocco! Mi dissocio da ogni tipo di religione e vi prego di non pubblicare più niente di mio sul giornalino perché non sono più Sangha!

Chi dice che esiste Dio uno solo, chi molti, chi parla di una sola vita chi di molte: che torre di Babele!

Figure come Cristo sono in contrasto con Buddha, Lao Tze e Maometto e tutti sono contro gli altri.

Un monaco Chan mi scrive che noi buddisti abbiamo il dovere di svegliare gli altri per salvarli, come se prima del Buddha nessuno mai si sia salvato in tutto il mondo, nemmeno gli indiani perché credevano negli Dei!

Ci dicono che nascere uomini è raro quanto lo sarebbe per una tartaruga cieca infilare la testa nell’unico giogo d’oro galleggiante in tutto l’oceano e da dove vengono allora tutti questi miliardi di uomini che sono una calamità planetaria?

Se la rinascita umana è davvero tanto fortunata perché mai il Dalai Lama predica gli anticoncezionali impedendo così agli animali di rincarnarsi come uomini?

Non sanno nemmeno loro che pesci pigliare! Ciò cha andava bene 2500 anni fa’ perché erano pochi non va più bene oggi con tutta la sovrappopolazione e la fame che c’è nel mondo!

Io credo che non sia solo il Cristianesimo che sta decadendo ma tutte le religioni che partono da un dogma, sia esso Dio o la rinascita, che ci impongono maestri davanti a cui inchinarsi senza mai porre domande. Oggi la spiritualità è laica e quel monaco Chan non ha mai risposto a certe domande da me poste. Perché non sa che dire!

Perciò non mi fido più del sentito dire, della tradizione, dei testi sacri che possono essere stati corrotti e male interpretati, né di ciò che dice un monaco solo perché è un monaco, ma avendo sperimentato da me stessa che tutte le credenze di rincarnazione non mi portano nessun bene particolare, sono luce a me stessa. Se crolla la dottrina della rincarnazione crolla tutto il senso principale del Buddismo che si basa essenzialmente su questa visione!…

   

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