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Trimle ott – dic 2005 n°4 Anno VII

 

  • Il desiderio – Gli impedimenti- oltre ed altrodi Ludovico Petroni
  • Infanzia senza fine  di Rodolfo Savini
  • Discorso e Meditazione sulla Benevolenza
  •  

    Il desiderio – Gli impedimenti- oltre ed altro

    di Ludovico Petroni   Prosegue dai trimli. n° 4/04, 1-2-3/05

      Tra i vari affreschi che tempestano le mura dei monasteri tibetani, un’ immagine sembra essere piuttosto puntuale. E’ la cosiddetta “Ruota della Vita”. Il fulcro dell’immagine, il mozzo da cui si dipartono tutti i raggi della vita, è occupato da 3 animali che si rincorrono.

    Quel costante, velato spostamento dal proprio centro, verso un altro polo situato altrove, spesso nel futuro, che è “l’oggetto dei desideri”, è rappresentato dal galletto.

    Nel profondo del silenzio e della solitudine, il senso di distanza tra il polo di sé e il polo dell’oggetto dei desideri può essere percepito come uggiosamente sbicentrante, come senso di separazione, mancanza, incompletezza. A questa “sete”, a questa condizione di sbilanciamento dell’essere costantemente in avanti, rivolto all’esterno verso un’effimera soddisfazione, l’oggetto da ottenere si rivela cangiante. Non appena lo si raggiunge, alla meta dell’aspirazione, subito ne succede una nuova.

    La ricerca costante di una “risoluzione esterna” tenta di colmare un “buco intimo”, un vuoto cui ci rivolgiamo con estrema riluttanza.

    Il galletto simboleggia un’ intima miseria che si rivela come una pulsione le cui molteplici sfaccettature aumentano con l’instaurarsi di una acuta consapevolezza nel quotidiano e che la parola DESIDERIO copre a stento.

    Per tentare di raccogliere tutti i rivoli che questa essenziale pulsione della vita comporta, può convenire tornare alle parole del Buddha: “Essere separati da ciò con cui vorremmo stare è Dukkha” . (Dhammacakkapavattana sutta – Samyutta Nikaya e altrove). Oppure a quelle di un maestro contemporaneo: “Sofferenza è volere che le cose siano diverse da ciò che sono”. Il VOLERE è la sete. Il desiderio sessuale è sete, tutti i desideri dei sensi, ogni aspirazione per quanto nobile, ogni progetto futuro ancorché insignificante, avidità, golosità, ingordigia, voracità sono “sete”. Sete è quasi tutto quel che alimenta il fare e disfare degli uomini nel grande e nel piccolo, per certi versi anche il cogliere  quella mela che il primo di noi infaustamente “volle” per la messa in moto del nostro biblico regime di “apartheid”.

    E’ ordinario stentare tutta la vita per riconoscere il sapore penoso della sete in sé. Certi aspetti della pulsione “desiderio” non li riconosceremo mai. A certi altri continueremo ad applicare una patina di dignità abbinata alla considerazione di poter oggettivamente migliorare il mondo in qualche risvolto. A certi altri aspetti della pulsione “desiderio” che pur intellettualmente riconosceremmo come “non sempre solo benefici” non rinunceremmo neanche per sogno.

    La popolare percezione profonda che l’intensità e la disponibilità al desiderare siano indice di salute, benessere, successo, riconoscimento, affermazione sociale la dice lunga sulla distanza tra le idee del mondo ed una pacificazione intima cha ha luogo sotto le idee, sia pur nel mondo.

    Che alla generale pulsione al volere convenga guardare almeno con sospetto e circospezione si ribellano giustamente quasi tutti. Anche il prete cattolico con cui ci ritrovammo per un incontro interreligioso di fronte ad una scolaresca di liceali sollevò l’obbiezione che certi desideri/aspirazioni erano benefici e positivi.

    Giusto, giusto in modo ordinario.

    Che ogni volizione sia rivelazione di una insoddisfazione e di un’intima incompletezza però rimane, e se si vuole guadagnare una serenità un po’ meno superficiale, converrà entrare in confidenza con il buco della nostra intima miseria in un modo o nell’altro. A parte l’aggiustare le cose intorno a noi per continuare la lista di eventi chiamata storia, da cui la guerra non è stata depennata mai.

    Certo è che senza l’aspirazione al benessere e alla liberazione dalla sofferenza per sé e per gli altri nessun primo passo può aver luogo. Mi sembra che una Benevolenza ben radicata nella Compassione debba essere usata a piene mani per indirizzare in modo giusto lo sforzo teso allo sviluppo della concentrazione e consapevolezza. Inoltre auspicherei che i precetti in quanto tali vengano accolti senza se e senza ma, anche prima che si rivolga l’interesse alla “Giusta Comprensione” in modo da non perdersi nella “Giungla dei punti di vista e delle opinioni” da dove, magari, finire per far del male in nome di qualche sacro ideale.

    A questa latitudine così aliena dal contesto in cui risuonarono le parole del Buddha, mi pare che la meditazione su Compassione e Benevolenza possa magistralmente divenire il veicolo per instillare quella “Giusta Comprensione” che giunga ad includere l’abbandono alle nostre spalle della zattera con cui si è appena guadato il fiume.

    Se anche non si avverte la tensione di coprire il buco, forse è meno straordinario cogliere un’altra caratteristica che rende la pulsione incarnata dal galletto sconveniente: il puntuale dolore che comporta il non riuscire ad ottenere ciò che si vuole (dhammacakkapavattana sutta – samyutta nikaya  e altrove), o il perdere ciò che di desiderato abbiamo momentaneamente acquisito. Questo disagio, puntuale conseguenza del desiderare, interessa un campo vasto da non credere. Si va dalla disperazione da lutto per la perdita di colui o colei divenuto/a riferimento abituale della nostra sete, all’amarezza cronica per non aver avuto abbastanza, alle frequentissime irritazioni minori dovute al fallimento di micropianificazioni che affollano le nostre menti: sto guidando verso casa ove ho invitato per cena un caro amico per il quale vorrei cucinare una certa pietanza i cui ingredienti dovrei trovare in un certo super-mercato strada facendo. Sto impiegando la mia mente in una programmazione tutt‘altro che straordinaria che non riconosco come catena di minuscoli desideri orientati al futuro.

    Probabilmente, però, mi accorgerò dell’irritazione se improvvisamente un qualche veicolo rallenta il traffico  al punto da poter far chiudere quel certo super-mercato solo grazie al quale tutti gli altri microdesideri successivi potranno esser soddisfatti.

    Ma c’è un’altra fregatura in agguato nelle nostre quotidiane catene di microdesideri:

    sto lavorando per un certo cliente, sono tranquillo ed il lavoro non pone problemi particolari. A questo punto mi pongo degli obbiettivi. Decido dentro di me che quel lavoro può essere portato a termine entro un periodo di tempo preciso, e magari rendo partecipe il cliente di queste mie riflessioni creando un’aspettativa inutile e gratuita in me ed in lui. In questo modo non solo il più lieve imprevisto può trasformare il “tranquillo lavoro” in un inferno perché non posso più tener fede ad un impegno preso, cioè a soddisfare una certa aspirazione, ma viene neutralizzata anche l’eventuale soddisfazione per i risultati finali. Portare a termine il lavoro nei tempi previsti senza intoppi è divenuto normale, qualcosa che “ci si aspetta”, e quindi non più degno di apprezzamento.

      La parte in basso a destra della “Ruota della Vita”, cui ci riferivamo precedentemente, è popolata da strani esseri. I cosiddetti Peta sono mostriciattoli dalla bocca minuscola ed il collo così sottile da non poter soddisfare la immensa voracità evidenziata dai loro ventri sproporzionatamente gonfi. I mostriciattoli in questione rappresentano l’insaziabilità dell’ingordigia per cui specie animali e vegetali,  nonché i popoli più deboli,  si soggiogano, si estinguono e sopprimono.

    Per insaziabile voracità di risorse si trasforma il pianeta e si combattono guerre di rapina mascherate da una coltre di ipocrisia così spessa che non solo si fa giustificazione per gli stolti, ma fa diventare stolti.

    Siamo noi! L’unica specie che non consuma per vivere ma vive per consumare e può sopravvivere solo consumando sempre di più.

    I Peta siamo noi! Per aver avvelenato il pianeta al punto che l’esistenza di future generazioni è messa in dubbio.

    “Così o Ananda, la sensazione è origine della sete, la sete è origine della ricerca, la ricerca è origine dell’assunzione, l’assunzione è origine del gradimento, il gradimento è origine del desiderio turbante, il desiderio turbante è origine del possesso, il possesso è origine della proprietà, la proprietà è origine dell’avarizia, l’avarizia è origine della tesaurizzazione, a scopo di tesaurizzare l’armarsi di mazza,l’armarsi di spada, guerra, conquista, litigio, discussione, calunnia, menzogna e più di un elemento torbido, non salutare si manifesta. (Maha nidana suttanta – Digha nikaya)

    (Proseguirà nei numeri successivi con ulteriori riflessioni sull’impedimento del desiderio)

     

    Infanzia senza fine  di Rodolfo Savini

      Dopo un lungo riposo mi sveglio e vedo che lo spazio in cui il mio sguardo correva libero non c’è più. Cerco qua e là. Quel paesaggio si è ristretto. Mi accorgo per la prima volta di essere uno straniero affascinato e stordito da ricchezza e povertà, da tecnologia e rumore. Non so. Torno a dormire, un sogno o un incubo.

    Suona la sveglia. L’ora di andare a fare. L’abitudine di ogni giorno. Gesti muti e ripetitivi. Il desiderio inespresso di fermarmi, di inciamparmi, di cadere in questo spazio soffocante. Stordito. Qualcosa vi riesce, forse è bastato quello scalino più alto del solito o quel tombino dissetato che mi ha fatto perdere l’equilibrio. Lì disteso al suolo, fragile residuo del nostro consumo, eppure vedo. Un’altra prospettiva apre lo sguardo. Mi immergo, la vivo. L’assurdo del mondo dell’abitudine visto sottosopra: l’olfatto se ne nausea, l’udito ne è lacerato, l’odore dello scontato in un fischio assordante, un marciapiede di abitudini su cui dovrei posare annoiato il mio piede. Chiudo gli occhi vorrei tornare a dormire, a sognare. L’abitudine mi lega ormai a questa realtà, ne sento il peso ma impotente, non riesco a sollevarlo. Qualcosa manca. L’ingenuo, l’appagato, il non-domandante non c’è più. Ormai sono lo stordimento, l’insoddisfazione, il pregiudizio. Se poi alzo lo sguardo mi accorgo delle finzioni e del puzzo, di chi ghigna al vento e di chi impassibile ormai può solo guardare fisso il mozzicone spento in mano. Una nube densa e oscura mi avvolge; nessun vento sopraggiunge a spazzare. I contrasti drammatici e insaziabili che nei campi dell’innocenza non scorgevo, ora sono lì, domando con l’occhio, con l’orecchio, e così, e così. Il pensiero vorrebbe tacere ma qualcosa lo lacera, dove, perché, non sa come. La domanda trabocca e più nessuna risposta materna la placa. Ormai estenuato ed esausto torno ad essere vittima del sonno che tace. Non posso più dormire, né lo voglio. Un sussulto e non sono più quelle quattro ossa, quei  muscoli, organi o tendini a sostenermi. Sono le domande e più intense, più eretto e più capace di vedere. Spazio privo di risposte. Paure angosce scuotono, ma non sono sole. Qualcosa le pervade, qualcosa di premuroso e silenzioso, di comprensivo e accogliente. Senza distinguere, opera; questo ribollio lacerante di atrocità si smussa. E’ lì ora, ma non ne scorgo né forza, né mani, né energie fuggenti. Vorrei poterne distinguere le sembianze, vorrei abbracciarne le ombre rassicuranti che appaiono evanescenti tra le mie mani. Aiuto, sprofondare nello sconosciuto amato e così cercato. L’ultima paura è lì a guardarmi.  Vuole che mi afferri a lei, tende la sua mano ghiaccia. Ne guardo l’ipocrisia che la pervade, ecco il coraggio di farsi anche travolgere. Ruberà, ma non tutto potrà sottrarre. Soffocherà, ma non tutto potrà serrare. Illuderà ma non tutto si dissolverà. La domanda tiene fermo e irremovibile lo sguardo che sente. Le sembianze soltanto potranno essere afferrate. Le sfuggirà il cuore più prezioso perché le è sconosciuto. La notte della paura, onda aggressiva e vento travolgente, passa, non può che passare, come è apparsa. Nondimeno fa il bagliore effimero che acceca di una gioia stridente che grida voglio, voglio, voglio senza sapere cosa, se non la perenne scontentezza. Vuole essere ma non è. Stordimenti, desolazione. Povertà  di ogni paura e di ogni entusiasmo. Illusione appresso illusione. Sotto al foglio del nostro respiro una luce chiara e trasparente tace, non può dire nulla perché le manca una parola. Traboccante di nulla e di tutto, invisibile sostiene, ardendo scioglie, profumando inebria. La domanda diviene silenziosa attesa che qualcosa si esaurisca,  che la porta dell’egoismo si apra, che i muri dell’indifferenza e dei desideri si sgretolino. Per essere là. Con l’aspro che ancora brucia la gola serrata.

     

    Discorso sulla Benevolenza (parte iniziale)

      Questo dovrebbe fare

    chi pratica il bene

    e conosce il sentiero della pace,

    essere abile e retto,

    chiaro nel parlare,

    gentile e non vanitoso,

    contento e facilmente appagato,

    non oppresso da impegni e di modi frugali,

    calmo e discreto,

    non altero o esigente,

    incapace di fare

    ciò che il saggio poi disapprova.

     

    Meditazione sulla Benevolenza

      Che io possa dimorare nel benessere

    che io possa dimorare nella pace

    che io possa dimorare nell’apertura del cuore

     

    Che la persona cara, l’amico

    possa dimorare nel benessere

    che  possa dimorare nella pace

    che  possa dimorare nell’apertura del cuore

     

    Che la persona incontrata per caso

    possa dimorare nel benessere

    che possa dimorare nella pace

    che possa dimorare nell’apertura del cuore

     

    Che la persona per cui provo avversione,

    con cui sono in conflitto,

    il nemico

    possa dimorare nel benessere,

    che possa dimorare nella pace

    che possa dimorare nell’apertura del cuore

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