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Trimle gen – mar 2006 n° 1 Anno VIII

  • Impedimenti, oltre e altro – il desiderio Ludovico Petroni
  • La sensualità del non-attaccamento  Rodolfo Savini
  • Sul desiderio – insegnamenti buddhisti 
  •  

    Il desiderio – Gli impedimenti- oltre ed altro

    di Ludovico Petroni   (Prosegue dai trimli. n° 4/04, 1-2-3-4/05)

    Ma oltre ai macroscopici effetti del desiderio-voracità della specie uomo – razza bianca, oltre alla pena dell’esser separati da ciò con cui vorremmo stare, alla pena per non ottenere ciò che si vuole, vorrei considerare quanto e come un’ intensa passione per una sfera dell’essere, finisca per drenare energie a qualche altro lato di sé. Un effetto del desiderio, che rischia di drenare importanti energie alla potenzialità dei singoli è la creazione di una dimensione parallela, ove, tutti i nostri desideri ed aspirazioni più fantastiche saranno appagati. E’ il sogno incentrato su sé stessi, il luogo ove ognuno guadagna il palcoscenico, l’ininterrotto film interiore in cui finalmente si è attori principali. Quando questa dimensione parallela finisce per veicolare maggiori energie della dimensione reale si cade nel patologico. E poco importa se le scene del film, prodigio dell’attaccamento, si ripetono uguali per tutta la vita.

    Un po’ come per una mia ex fidanzata che ancora ricordava la prima volta che la mamma l’aveva portata al cinema. Fu un bellissimo film di Topolino che riuscì a vedere per tre volte di fila prima che la mamma la portasse via tra urli e strepiti.

    Quando fu portata al cinema per una seconda volta, l’entusiasmo della piccina doveva tradursi in una delle più cocenti delusioni esistenziali: per tradimento supremo, urla e strepiti, nel film, Topolino non c’era più! Prodigio dell’attaccamento.

     Il simbolo del fattore chiave dell’attaccamento (Upadana), nella produzione della sofferenza, è situato all’estrema periferia, in basso a sinistra della “Ruota della Vita” nostra preziosissima guida. L’immagine è quella di una scimmia che agguanta un frutto tra i rami di un albero. E’ preceduta dall’immagine di una persona che beve e rappresenta (Tanha), la sete. La quale è preceduta da una persona dagli occhi trafitti da frecce che rappresenta la sensazione,(Vedana). La quale può aver luogo solo in quanto è avvenuto un contatto sensoriale (Passa),  rappresentato dall’immagine a volte quasi pornografica di due amanti in atteggiamenti inequivocabili, che si trastullano solo in quanto dotati delle 6 porte sensoriali ( Salayatana), rappresentate spesso come un gruppo di case con finestre.

    La direzione che dalla sensazione (Vedana)  conduce all’innesto di Dukkha attraverso l’attaccamento è abbastanza esplorata. Forse, invece, può contribuire al disinnesco della spirale chiedersi perché percepiamo un certo stimolo sensoriale come piacevole o spiacevole. La stessa sensazione che alcuni possono riconoscere come piacevole per altri è spiacevole. Perfino la stessa sensazione per la stessa persona, a volte è piacevole altre volte spiacevole, spesso a causa di circostanze concorrenti,  altre volte  a causa di condizionamenti passati, poco ragionevoli e a volte risibili, che non dovrebbero meritare il rigore con cui etichettiamo positivamente o negativamente la sensazione di turno. Mi può piacere una certa persona, semplicemente perché qualcosa in lei mi ricorda qualche altra persona piacevole. Può dispiacermi un certo cibo solo perché, quando la mamma me ne dava, percepivo la sua tensione, o per chissà quante altre incalcolabili concause.

    Forse dovremmo dare meno importanza all’etichetta della sensazione per poter togliere intensità all’infausto itinerario che ne consegue.

    Anche i pensieri cui attribuiamo un gran valore producono sensazioni. Proviamo a rilassarci al riguardo. Come dice il venerabile Sayadaw U Pandita “ogni pensiero può sorgere in qualunque mente in qualunque momento. Come se non fossero nostri. Che sollievo!”

    Una sensazione essenziale per la messa in moto della “Ruota della Vita” è la fame. La straordinaria possibilità di questa epoca e di queste latitudini, di poter soddisfare le richieste dello stomaco con una miriade di soluzioni in qualunque momento, deve aver contribuito ad etichettare ‘fame’ come  piacevole. Oggi possiamo usare il sinonimo meno drammatico di appetito, la cui bontà quotidianamente ci auguriamo.

    Che tipo di emozioni potrebbe coniugare alla nostra sensazione di “appetito” una persona non nata nel “bel paese” bensì in Mozambico. Una persona della nostra stessa età, con desideri e volizioni simili, con i propri pensieri incentrati sui greggi e sui figli, che per anni ha aspettato la pioggia, che è venuta tutta insieme a spazzare via il villaggio nel sonno. Rimasto aggrappato ai rami di una albero con tutte le forze, finchè la piena non è passata, abbandonati parenti e figli sepolti dal fango, comincia una lunga marcia nella palude, con i pochi superstiti verso il campo profughi che si dice essere a centinaia di miglia. E lungo la marcia, dopo aver visto morirne il vicino di casa, quali emozioni coniughereste all’”appetito”, con un senso di spossatezza mai sentito prima e che rivela evidenti la pesantezza delle palpebre, il battito del cuore, il respiro breve e debole, cui ci si aggrappa tra lo scalpiccio dei piedi nel fango.

    Ci vuole poco a dimenticare come la fame sia la più diffusa delle malattie mortali, di cui bisogna prendersi cura almeno quotidiana.

     

    La sensualità del non-attaccamento di Rodolfo Savini

    Desideri e aspirazioni sono l’anima della nostra “cultura del progresso”. (Non si affronta qui il tema opposto e per certi versi speculare, di individui e società che trovano nel passato il loro fondamento e che, anziché essere proiettate “verso ciò che sarà”, solo legate a “ciò che è stato”). Già da piccoli, ma con la scuola e con le varie attività collaterali ancor più, veniamo istruiti a cercare “in avanti” il senso di ciò che accade “ora”.  Nello sport, per esempio, si può osservare come di frequente i genitori “gasino” i propri figli ad ottenere risultati che gratifichino in primo luogo loro stessi anziché i figli e tutto ciò a scapito di un’educazione volta ad apprezzare lo sport come divertimento. La competizione stravolge il senso di ciò che facciamo. L’altro non è più un “compagno di gioco”, ma l’ “avversario” che si materializza in un vero e proprio “nemico” da sopraffare con ogni mezzo, anche ricorrendo a “sostanze” sleali.

    Certo che l’essere i migliori, l’emergere sugli altri può assumere un aspetto liberatorio sia da quella staticità che può caratterizzare la vita in campagna, sia da quelle società  esplicitamente o implicitamente divise in “caste” che obbligano in specifici ruoli senza possibilità di scampo, sia ancora come opportunità tale da scuoterci dal torpore che accompagna di frequente la nostra quotidianità.

    Ci dobbiamo chiedere allora se desideri, aspirazioni, progresso siano  di ostacolo alla crescita interiore dell’uomo e allo sviluppo sociale oppure li promuovano.

    Da un lato vediamo che il mettere in discussione questa “pulsione al volere” è visto senza dubbio come la più arrogante minaccia al benessere, a quel filo conduttore di ciò che chiamiamo “storia”, la “storia del progresso”, che però è anche storia in cui alle guerre viene data più importanza che alle paci (almeno si potrebbe fare il contrario!)

    Dall’altro però, mentre tutto ciò avviene, la dimensione sociale non riesce a celare e sottacere il confronto, in un modo o nell’altro, con quel “buco” della nostra intima miseria di cui parla, poco sopra, Ludovico. Chi non trascura questa voragine cieca è lo squallore di certa televisione che si compiace di farlo emergere come “spettacolo” da gustare a “scapito degli altri” mai come una “realtà”, anche la “mia” realtà..

    Abbiamo appreso a coprire quel buco con le nostre micro-pianificazioni che servono, per lo più, a dare un senso a ciò che facciamo, anche se queste confinano inevitabilmente assai da vicino con altrettante micro-frustrazioni, dovute al fatto che il nostro “sì” non è capace di fare i conti con i “no” della vita. 

    Ciò che prevale in questi casi è la dimenticanza di sondare le radici del dissapore, che da un nonnulla scivola versa la strada maestra della conflittualità.

    Queste micro-pianificazioni sono il frutto e concorrono a loro volta ad alimentarlo, di una cieca “cultura del progresso”, dove l’attenzione è sempre al “dopo”, ad un “futuro” irraggiungibile e incapace  di appagare non solo della mia esistenza, ma dell’esistenza tutta. 

    Quello che sembrava relegato ad “un quotidiano”, il “mio”, è anche una chiave di interpretazione collettiva e sociale, in un circolo vizioso che, anche qui, si auto-alimenta.

    Individuo e società, avidamente proiettati verso un risultato, non tengono conto dei “rifiuti” che si lasciano alle spalle: risentimenti e frustrazioni da un lato, povertà e fame, inquinamento e danni ambientali dall’altra.

    Già solo intravedere questi limiti, il puzzo di queste “discariche” immateriali e materiali che siano, potrebbe stimolare a prendersi cura di questa “voracità” della mente e della società, perenni fonti di ansia e di conflitto.

    In quello che avevamo individuato come buco del “non-senso”, intravediamo ancor più una voragine che vorremmo negare con ogni stordimento. È la voragine della nostra miseria fatta di  micro e macro desideri frustrati, che sorgono dall’esserci troppo sbilanciati in avanti, come detto, ma anche, ricordiamolo, troppo indietro, dove i desideri assumono la forma di “nostalgie”. Metterli a confronto con la morte, apice della frustrazione, potrebbe servire come efficace medicina? Chissà se dalla morte si dovrà rifuggire o sottacerla con qualche ubriacatura, oppure se potrà essa stessa educarci ad  un  “desiderio senza voracità”?

    Ci si potrebbe accorgere della poca libertà che vi è nel nostro “desiderare-volere”. Quella vantata “libertà” potrebbe essere soltanto il frutto già noto di un condizionamento latente, non ancora riconosciuto e che, come un fantasma, riprende sembianze diverse, senza cambiare però la propria natura..

    E’ vero che nel simbolismo della “Ruota della Vita” della tradizione tibetana, come ricorda Ludovico nelle sue riflessioni (vedi sopra), queste forze prendono una forma e meglio si “fanno scorgere”. Esse appaiono con disagi e sofferenze inasprite dall’ “attaccamento”. Se non ci accorgiamo della “sete” che abbiamo, del desiderio incolmabile che accompagna i nostri sensi e gli organi del nostro corpo, questi senz’altro correranno all’impazzata e noi “appresso” a loro.

    Nessuna diga, per quanto imponente sia, riuscirà mai a fermare quel possente fiume del desiderio sfrenato. Rassegnazione allora? Forse si dovrebbe vivere così, come dice Baudelaire: “Quasi tutte le nostre infelicità giungono a noi poiché non abbiamo saputo restare nella nostra camera”. Qui si potrebbe intuire il senso della vita di clausura o quella dell’eremita, di chi si chiude nel proprio mantello come fa quel  beduino nel deserto al sollevarsi della tempesta di sabbia.

    Forse la “sete” scaturisce dal “vedere” qualcosa che sembra  migliore o dal “rifiutare”, ugualmente, ciò che sembra peggiore; nasce dal confronto valutativo e competitivo.

    Riuscire ad entrare in “contatto” con la realtà esterna, l’avvalerci dei nostri sensi (fortunatamente ne abbiamo solo cinque, più la mente!), avvertire la prepotente sete che ne nasce può già essere un modo per smussare il disagio-dolore della perenne insoddisfazione del presente.

    Un progresso senza il motore dell’attaccamento potrà mai diventare il senso della nostra esistenza? Oppure l’avidità egoica  continuerà a rivolgere contro noi stessi le nostre stesse scoperte? Educarci ed educare a queste domande potrebbe portare ad un progresso non egoico, ad un progresso altruista, ad una crescita nel rispetto dell’altro e alla necessità intima di aiutarlo, con ogni “mezzo”, verso il proprio benessere, che è sia suo che nostro. O tutti progrediremo o nessuno riuscirà a progredire a scapito degli altri, le rivoluzioni saranno sempre pronte ad impedirglielo. La vita ci costringe a mangiare con un cucchiaio dal manico lunghissimo: non potremo mai nutrire noi stessi, mentre si potrà nutrire chi ci è di fronte. Al desiderare per gli altri, gratuitamente, senza aspettarci che gli altri facciano lo stesso con noi è forse uno dei significati più profondi dell’educazione. Non c’è da aspettarsi nulla, perché si ha la certezza che prima o poi impareremo a farlo. È nella necessità della vita; “apprendere” l’altruismo è evitare che si venga “costretti” a farlo.

    Come può essere vero ciò che dice il venerabile Sayadaw U Pandita: “Ogni pensiero può sorgere in qualunque mente in qualunque momento. Come se non fossero nostri. Che sollievo!”?  Perché questo sollievo? Come può esservi sollievo in questo mare di egoismi? Di chi sarebbero questi pensieri allora? Forse che il turbine di quella tempesta egoica che agita e sommuove il fango dello stagno, potrebbe placarsi e divenire un soffio di vento, o addirittura una brezza leggera? Se così fosse allora si potrebbe scoprire con stupore che, guardando in profondità nello specchio d’acqua di quello stagno, non scorgeremo più la nostra immagine, ma quella di tutto ciò che è.  Non solo di ciò che è bello e piacevole, purtroppo anche di quel fango che, agitandosi, incupisce e acceca.

     Che possa sorgere il desiderio di guardare quella melma che è depositata nell’intimo di ognuno, e che invano vogliamo rimuovere con mille sotterfugi. Che si possa avere il desiderio di raccoglierla  con la mano ferma di chi comprende, un po’ più, il dolore che vi è riposto. “Liberarci” e “liberare”. Che ci si possa accorgere che il  dolore che accompagna quel “fango” aiuti a rendere meno radicato un tipo di desiderio e ad incoraggiarne il sorgere di un altro. Forse il barlume di una nuova “comunità”, un sangha “assetato” anch’esso, ma di comprensione e compassione. Che sollievo!

    Dal Dhammapada (215,251,334-336,338,341,342,345, 351)

    “Dal desiderio nasce il dolore: dal desiderio nasce il timore: chi è libero dal desiderio non conosce dolore: di che cosa avrebbe, allora, timore?

    Non vi è fuoco come la passione, non vi è artiglio simile all’odio, non vi è rete pari all’illusione, non vi è corrente che trascini come la cupidigia.

    Nell’uomo che vive con la mente distratta la sete cresce come un liana nella giungla: egli guizza di vita in vita, come la scimmia che desidera  un frutto salta di albero in albero.

    Colui che tale sete velenosa, difficile a superare in questo mondo tormenta, le sofferenze di costui crescono come  folta erba nociva.

    Però colui che sopporta tale sete velenosa, difficile a superare in questo mondo, da lui scivolano via tutti i dolori come goccia d’acqua dalla foglia di loto.

    Come un albero, anche quando è stato tagliato, cresce di nuovo finchè non è stata divelta la salda radice, così pure, finchè i vincoli della sete non siano troncati, questo dolore cresce di nuovo e di nuovo.

    Impetuosi e inebrianti sono gli appetiti dell’uomo. Dediti ai piaceri e alle gioie che ne derivano gli uomini soggiacciono continuamente a nascita e vecchiaia.

    Dominati dalla sete, gli uomini balzano qua e là come lepri incappate nella rete. Soggetti a vincoli e legami continuamente e a lungo vanno verso il dolore.

    I saggi non chiamano saldo legame quello che è fatto di ferro, legno o di canapa: appassionatamente più forte è l’affetto per le gemme e gli anelli, per figli o moglie.

    Chi ha raggiunto la consumazione dell’esistenza, che non trema più, la cui sete è scomparsa, che è senza macchia, che ha troncato i pungoli dell’esistenza, di costui questo qui è l’ultimo corpo di cui si riveste”

     

    Dal Majjhima-nikaya, XIII

    Mossi da brama, incitati da brama, spinti da brama, appunto solo per brama contendono re con re, principi con principi, sacerdoti con sacerdoti, cittadini con cittadini, contende la madre con il figlio, il figlio con la madre, il padre con il figlio, il figlio col padre, contende fratello con fratello,  fratello con sorella, sorella con fratello, amico con amico. Caduti così in discordia, lite e contesa, essi si scagliano l’uno sull’altro, con pugni, con pietre, bastoni e spade. E così si affrettano incontro alla morte o a mortale dolore. Ma ciò, o monaci, è miseria della brama, è il palese tronco del dolore, originato da brama, contesto da brama, conservato da brama, determinato appunto da brama. E inoltre ancora, o monaci: mossi da brama, incitati da brama, spinti da brama, appunto solo per brama essi irrompono nelle case, rapiscono l’altrui bene, rubano, ingannano, seducono spose”

     

    Dal Digha-nikaya

    In verità, è la sete che ha il potere di far rinascere, che è accompagnata da bramosia e da compiacimento per se stessi, che cerca piacere or qua or là: è il desiderio della vita dei sensi, il desiderio di eternità, il desiderio dei beni materiali. E questa sete donde sorge? E dove si trova? In tutti i beni materiali ai quali noi teniamo e che ci sono graditi. È là che si trova la sete”

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