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Trimle lug – sett 2006 n° 3 Anno VIII

 

L’avversione  di Ludovico Petroni 

 

Nel fulcro della ‘Ruota della vita’, oltre al galletto che simboleggia la bramosia, c’è anche il serpente che simboleggia l’avversione.

 Con il termine generico di avversione si intende una moltitudine di variegati stati mentali accomunati da una matrice negativa, che hanno la loro origine in un contatto spiacevole, il ‘dover stare con ciò con cui non vorremmo stare è Dukkha’ (dhammachakkha sutta e altrove).

Si va dalla rabbia, alla gelosia, all’irritazione,  all’invidia, all’odio (verso se stessi e verso gli altri), alla contrarietà, alla mal disposizione d’animo, all’umor nero, fino alla negatività più sottile della mente ipercritca, giudicante, appassionata a trovare ed evidenziare difetti e mancanze con grande acume.

Per riconoscere le emozioni caratterizzate da matrice avversiva, si potrebbe considerare che esse sono tutto ciò che ‘offre resistenza’ all’azione purificatrice della Metta, la meditazione sulla Benevolenza, che è la disposizione mentale opposta all’avversione ed il suo antidoto naturale.

Non ci dovrebbe esser bisogno di soffermarsi sul danno che certe pulsioni negative come l’odio portano nei rapporti umani attraverso contrasti e conflitti. Invece, non sempre è chiaro il danno portato dalle altre più sottili sfumature avversive, che,  comunque, solitamente conducono all’abbandono, alla penosa solitudine degli individui e alla disgregazione sociale.

Avendo a cuore l’aspirazione alla Comprensione Profonda della mente e della vita, è opportuno considerare  come l’avversione impedisca di veder bene. Sia nel senso che non si vede ciò che c’è, sia nel senso che si vede ciò che non c’è!!

E’ stato detto che provare avversione verso qualcuno\qualcosa è come afferrare una manciata di brace con l’intento di scagliarla contro l’oggetto della nostra rabbia. E’ possibile che si riesca a ferire qualcuno, ma è certo che, prima di tutto,  ci ustioniamo la mano. Questa è la prospettiva che ci interessa: il percorso doloroso della rabbia comincia nel cuore di chi la sperimenta, per poi eventualmente espandersi direttamente ed indirettamente all’esterno.

Spesso, la persona che provoca la nostra rabbia non ne sentirà minimamente le conseguenze. Prendiamo per esempio il 1° ministro che, in questo paese, è prima o poi coralmente odiato da qualunque parte provenga. Per qualche motivo, oggi abbiamo deciso (perché si decide!) che Mr X in questione merita tutta la nostra sacrosanta rabbia (che è sempre sacrosanta). Cominciamo quindi a percorrere il noto itinerario di arroventamento per mezzo del turbine dei nostri pensieri: -Mi ha insultato, mi ha ferito, mi ha ingannato, mi ha derubato, se coltivi questi pensieri vivi immerso nell’odio- (pagina iniziale del Dhammapada). E’ molto improbabile che il 1° ministro ne rimanga colpito.

I nostri pensieri di avversione influenzano il corpo (e viceversa). Ci ritroviamo un corpo rovente che emana naturalmente il suo insano calore. E non è che il calore rimane circoscritto ed indirizzato verso l’area di presunta origine ( il 1° ministro, il collega di lavoro, il vicino di casa). Una rabbia coltivata sul posto di lavoro non si interrompe sulla soglia di casa, quando giriamo la chiave nella serratura, per accedere al nido delle persone più care.

Il calore del nostro cuore arroventato ha sempre investito le persone più vicine, spesso i nostri cari.

Un po’ come se puntassimo un’arma contro un nemico, ma la caratteristica della nostra arma è che, tirando il grilletto, la canna esplode ferendo noi per primi e chi ci sta intorno.

Cioè le conseguenze vicine e lontane del nostro indulgere in pensieri avversivi non sono circoscrivibili, prevedibili, calcolabili, programmabili, definibili ….

Se non si sa chi e quando la nostra rabbia finisca per colpire, allora non è più neanche certo da dove ci arrivi, chi o che cosa l’abbia provocata in noi. Cioè, la nostra rabbia può non venire dal 1° ministro, dal collega di lavoro o dal vicino di casa: potrebbe esser causata da qualcun altro, magari prima.

Se accogliamo questa prospettiva di incalcolabile contagiosità dell’avversione, ci ritroviamo a guardare con grande circospezione a tutte quelle versioni della rabbia che abbiamo sempre considerato utili, benefiche o utilizzabili.

L’odio non sarà più utilizzabile per portare la pace nel mondo. La coercizione punitiva, così popolarmente diffusa,  non potrà più essere utilizzabile per educare dei cuori ad essere effettivamente liberi da rancori ed animosità. Non sarà più possibile lasciar prosperare malerbe di avversione in angoli del proprio giardino, quando altrove, devotamente, ci impegniamo alla bontà e alla purezza di cuore.

L’estinzione dell’odio conoscerà una radicalità tale che altre tendenze avversive meno palesi e più subdole verranno a loro volta riconosciute e neutralizzate.

Se ci caliamo in questa prospettiva di potenziale incontrollabile contagiosità dell’avversione, vediamo con chiarezza perché un contesto sociale in cui una qualche forma di avversione viene coltivata,  magari per i fini più nobili, quale migliorare il mondo, finisca per esser logorato, paralizzato e disintegrato dai conflitti intestini.

Potrebbe essere che certi obbiettivi preferenziali della nostra avversione siano solo la scintilla occasionale, la scusa che ci consente di attingere al caro vecchio deposito di tossine da cui appassionatamente dipendiamo.

Effettivamente tossicodipendenti, agiamo per procurarci quella rovente sensazione intima, quella penosa contrazione dell’essere, compagna di una sottile seduzione: la rabbia ci procura un vibrante moto di identificazione personale – io sono colui o colei che non sopporta questo o quest’altro, che non accetta quello o questo-

 Questo importante moto di identificazione è un motivo fondamentale del nostro ricorrere alla rabbia, che di per sé non è difficile da riconoscere, sia nell’ambito del ritiro intensivo sia altrove.

Nonostante ciò liberarsene non è affatto facile. L’attaccamento ad essa consiste in gran parte nella giustificazione razionale. Abbiamo il diritto di arrabbiarci. Abbiamo ragione ad arrabbiarci. Troviamo sempre validi motivi di arrabbiarci (la rabbia è sacrosanta!).

Risulta evidente una fase in cui alla rabbia s’innesta ciò che chiamiamo ‘orgoglio’, cioè un appassionato coinvolgimento dell’IO, destinato a nascere miriadi di volte in un’esistenza. E’ l’inalberarsi, il ‘montare a cavallo’, ci ergiamo su di un piedistallo di ultragiustizialismo, ove l’offesa subita macchia la nostra presunta estrema purezza ed integrità morale. Ciò è funzionale solo al sentirsi feriti in modo più traumatico, risulta utile per potenziare in modo esponenziale le ragioni del nostro risentimento (si noti il significato più letterale ed indicativo della parola ri …sentire).

  

Le due vie di pratica :

meditazione e mantra

di Taeri sunim


Nel Buddhismo coesistono varietà di pratiche e metodi, talvolta anche molto diversi tra loro, tutti comunque, aventi lo scopo comune di volere emancipare gli esseri dal loro stato di sofferenza esistenziale. Nell’apparente contraddizione di queste diversità si possono distinguere, in generale, due vie fondamentali di pratica : una della meditazione e l’altra del mantra.
Sotto il termine “meditazione” viene raggruppata una serie di vari metodi che differiscono notevolmente da scuola a scuola e da tradizione a tradizione. Vi sono, per esempio, meditazioni che intendono portare la mente a uno stato di calma e concentrazione, altre a uno stato di profonda consapevolezza, capacità di osservazione o di analisi. Alcune tradizioni, come quelle tibetane o esoteriche dell’estremo oriente, a tali scopi, si servono di visualizzazioni e rituali complessi. Altre, infine, come nello zen, tendono a definirsi un non-metodo, il semplice e puro essere nella natura originale (illuminazione).

 

Nella tradizione Theravada la meditazione può essere classificata in “mondana” e “sovramondana” a seconda dello scopo per cui si pratica. Nella motivazione mondana la mente rimane a livello del condizionamento della legge di causa ed effetto, mentre la pratica ha lo scopo di coltivare quella saggezza che permette di vivere con equilibrio fra gli alti e bassi della vita. La meditazione, in questo caso, è un mezzo che aiuta ad essere meno coinvolti dai problemi quotidiani e ad aprire il cuore agli avvenimenti con mente equanime e compassionevole.

Lo scopo sovramondano è invece quello più elevato, ma allo stesso tempo, più impegnativo, che richiede una totale rinuncia ai comfort e alle distrazioni mondane. E’ quello che conduce alla liberazione completa dai condizionamenti e alla realizzazione dello stato sereno, illuminato, compassionevole e incondizionato del Nirvana.

 Anche la pratica del mantra, presente in tutte le tradizioni buddhiste, può essere mondana: con la grande carica interiore che genera aiuta a sopportare meglio i problemi contingenti e a trasformarli. Ma il mantra, a differenza della pratica silenziosa di meditazione, ha anche un altro potere in più, che potremmo definire mistico e che consiste nel poter influire energeticamente sugli eventi della propria vita volgendoli a un fine prestabilito. Recitando verbalmente un mantra si mettono in moto vibrazioni mentali sottili che interagiscono con l’universo, gli esseri viventi e i fenomeni particolari. La mente, secondo la visione buddista, è vuota o interdipendente, ovvero, per esistere deve dipendere da varie cause e condizioni . Freud l’ha paragonata a un iceberg, la cui piccola parte emersa è quella cosciente, mentre quella sommersa rappresenta l’inconscio. Le vibrazioni del suono mantrico attivano i poteri celati nel profondo di questa parte misteriosa della mente umana, di cui l’individuo è ignaro, generando movimenti energetici che si manifestano nella sua vita. Per questo la pratica mantrica è conosciuta come la via dell’energia che agisce in base alla legge di causa ed effetto.

Nel Theravada le recitazioni in lingua pali, chiamate Paritta, hanno lo scopo di proteggere dagli incidenti, dalle negatività e di guarire dalle malattie.
Così anche nella maggior parte delle scuole Mahayana lo scopo è simile e diretto ad ottenere benefici mondani. Il mantra di Kuan Yin è invocato per soccorrere compassionevolmente quelli in difficoltà, le donne sterili, i bambini ecc..,,; il mantra del Buddha della Medicina (Baisajaguru) per guarire dalle malattie; quello di Ksitigarba e molti altri mantra per soccorrere gli spiriti dei i cari defunti.

Tuttavia non tutti i mantra hanno questo scopo. Alcuni sono puramente devozionali, come quello dedicato al Buddha Amitabha, con l’intenzione di rinascere nel suo paradiso dell’ovest dopo la morte e diventare così certamente dei Buddha compassionevoli e saggi.  Altri, invece, come il mantra della Prajna Paramita, “Gate gate paragate parasamgate bodhi svaha!” hanno lo scopo sovramondano di portare gli esseri all’altra sponda della liberazione.

 

Contrariamente a quanto normalmente si è portati a pensare in occidente, nel Buddismo non sempre questi due piani sono nettamente differenziati: al contrario, si fiancheggiano continuamente sostenendosi e scambiandosi l’uno con l’altro a seconda delle situazioni e circostanze. Basti pensare alla tradizione vietnamita in cui alla severità dello zen, pratica del proprio potere, viene affiancata la devozione della Terra Pura, pratica dell’affidarsi all’altro potere; alle meno note scuole Tendai e Shingon dove le due pratiche camminano sempre di pari passo; ad alcune scuole Nichiren dove alla recitazione del Daimoku fa quasi sempre seguito una meditazione silenziosa; e nella tibetana dove gli insegnamenti tantrici comprendono pratiche mantriche, meditazioni analitiche e meditazioni intuitive come la Mahamudra e lo Dzogchen, molto simili nei contenuti a quella zen.
In generale, un monaco o praticante di qualsiasi tradizione, che pratica la meditazione può anche dedicare dei momenti alle recite mantriche per risolvere certe questioni contingenti. Viceversa uno che recita i mantra può occasionalmente dedicarsi alla meditazione per realizzare una condizione interiore più raccolta e distaccata. Le due pratiche, quindi, camminano di pari passo senza entrare in contraddizione, riflettendo il principio buddista di non dualismo fra mondo e spirito che si traduce in frasi come: per essere persone pienamente realizzate abbiamo bisogno del benessere sia spirituale che materiale. I testi buddhisti affermano che le condizioni migliori dove si può praticare sono quelle dove c’è benessere sociale e materiale. Se le persone non hanno risolto i loro problemi primari è molto difficile praticare il Dharma.

 

Nel Mahayana tale dualismo è totalmente superato dal concetto del vuoto che afferma che tutti gli opposti sono interdipendenti, compresi il Nirvana e il Samsara . L’illuminazione non deve essere ricercata al di fuori del mondo ma vivendo in esso.

Oggi più che mai, nei comfort della società materialistica e nello stress della vita sempre più frenetica ed incerta, è importante mantenere questi due approcci integrati come un’unica pratica. Senza il bisogno di allontanarsi da tutto e da tutti abbandonandoli, cercare di trovare un equilibrio, la serenità, la sicurezza, la gioia nella vita ordinaria di tutti i giorni.

Lo zen, alla domanda cos’è l’illuminazione, risponde: la vita ordinaria è l’illuminazione.
Un aneddoto racconta di un giovane monaco venuto da lontano per apprendere il Dharma che chiede al maestro di essere istruito e riceve come risposta “se dopo aver fatto colazione ha lavato la sua ciotola”. Da tale risposta egli si risveglia al vero significato dell’insegnamento e si libera dalle concezioni errate.

 

 

  

Progetto “CALMA E PAZIENZA” - Luciano Bezzi

 Il “problema”non è il MONDO, ma come noi lo vediamo !!!

L’obiettivo del progetto siamo…..noi stessi ! La riduzione dell’egoità, lo smantellamento dell’io:  ogni giorno cercare di smontare pazientemente la pesante macchina costituita dal nostro io e le sue innumerevoli identificazioni.

 Per far meglio IL VIAGGIO verso l’obiettivo, 

cerco di formare un gruppo di persone, che hanno “una pratica”,”un abile mezzo”a sostegno della ricerca interiore:….che da’ frutto ORA ; con le quali fondare un piccolo villaggio ecologico, così da  poter abitare vicini e poter condividere insieme il più possibile la quotidianità,  il lavoro, “LA PRATICA “ e le relazioni ,fin dove si e’ pronti e fin dove si vuole , senza rigidità.

 Questo ENTUSIASMO,

mi è nato dall’esperienza di alcune relazioni con “amici spirituali” con i quali il conoscersi intimamente, lo svelarsi ,il guardarsi in faccia e dentro noi stessi , si è accompagnato al gioco, ironia , coraggio ,leggerezza e tanta tenerezza e solidarietà a tutto campo .

 Requisiti  INDISPENSABILI :

Essere appassionati dal voler vedere quello che c’è dentro di noi!

   Aver capito e un pò sperimentato che la cosiddetta “ACCETTAZIONE “ significa    vicinanza , interesse, intimità e ascolto tenero di qualunque cosa sorga in noi !!!

  Applicarsi quotidianamente in una pratica spirituale , in un cammino interiore che ci sostiene, che ha iniziato a dar frutto , che ci ha sospinti in un circolo virtuoso di fiducia-coraggio-gioia, che porta sempre più FIDUCIA più CORAGGIO più GIOIA

Chi più né ha più né “ METTA “

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