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Trimle gen – mar 2007 n° 1 Anno IX

   

L’avversione  di Ludovico Petroni 

L’orgoglio rabbioso  in Occidente si combina con una valenza sociale: chi non si inalbera orgogliosamente è considerato vile e mediocre. Generalmente parlando, la rabbia incute timore e rispetto. Quasi come  ‘se uno si arrabbia vuol dire che ha ragione’. Questa attitudine reverenziale  verso il moto di rabbia ha radici molto profonde e caratterizza le dinamiche dei rapporti in varie dimensioni sociali: è ben stabilito nelle regole comportamentali tra gli adolescenti, come tra i membri di associazioni criminali (codice d’onore); gioca infine un ruolo educativo fondamentale. Si pensi alla profusione della coercizione punitiva effettiva o minacciata: ‘non fare questo altrimenti mi arrabbio’ o addirittura ‘se fai questo o se non fai quello ti do ….’

Così finiamo per attribuire allo sbotto di violenza rabbiosa un valore di riferimento per la crescita individuale. La reazione rabbiosa diviene parametro di riferimento indiscutibile per capire ciò che è bene e male.

Una considerazione marcatamente diversa è quella che della rabbia  si ha ancora nella più tradizionale società sud orientale: lo sbotto di rabbia è manifestazione di fragilità psicologica. Chi mostra in pubblico la propria reazione rabbiosa ‘perde la faccia’ ed è probabile che venga deriso per la sua manifesta debolezza ed instabilità.

Dal momento che l’attaccamento alla rabbia si accompagna al fragoroso vortice di pensieri che la giustificano e motivano e che,  rincorrendosi,  finiscono per esser sempre gli stessi, ribadirei l’importanza di contemplare l’emozione avversiva nella sua dimensione più intima, al di sotto dei pensieri, come contrazione facilmente riconoscibile in qualche parte del corpo, come onda di calore ecc.

Più si riesce ad osservare l’emozione rabbiosa per come si manifesta nel corpo e meno reagiremo mentalmente alimentandola.

Questo cercare la sensazione fisica relativa all’emozione sperimentata, ha il senso opposto del ‘volgere lo sguardo altrove’,  rifiutando ed automaticamente aumentando il dolore. Questo calarsi nella sensazione ha il senso di porre il proprio cuore al centro del turbamento che stiamo sperimentando  e,  nel fare ciò, già la contrazione dolorosa si risolve un po’.

Zenkei Blanche Hartman riferisce: “Nonostante che ‘Dhukkha’ sia normalmente tradotto con ‘sofferenza’, deriva da una parola che significa ‘l’esser fuori centro dall’asse della ruota, ” che è esattamente come vengono lette certe afflizioni sottili nell’area del cuore, che è il centro di sé: un senso di latente incompatibilità che si ricompone quando ci si ricentra, riponendosi in asse rispetto alla ‘Ruota della Vita’. Nel fulcro della quale la consapevolezza rivela certe pulsioni basilari simboleggiate dal gallo, il serpente, il cinghiale …

 Ovviamente un cambio di direzione così importante può aver luogo nel raccoglimento del  ritiro intensivo, nel contesto del quale è oculato che vengano date il prima possibile appropriate istruzioni su come lavorare con la rabbia e gli altri ‘impedimenti’. Infatti, la tendenza distruttiva della avversione può ben essersi stabilita già da prima della prima seduta del primo ritiro, ed è probabile che una tale scomoda novità venga accolta con irritazione e che la prima seduta diventi anche l’ultima.

 Si può provare avversione per il posto, per il programma, per gli insegnanti, per gli inservienti, per certi momenti della giornata, per certe tendenze mentali (provare rabbia per la rabbia),  per il cibo, per certe tecniche di meditazione ecc.

Uno dei modi più comuni con cui si fa esperienza dell’avversione nell’ambito del ritiro intensivo è noto come V.V. (Vipassana Vexation),  diametralmente opposto a V.R. (Vipassana Romance), che  è stato considerato nei numeri precedenti di questa rivista nell’ambito del desiderio.

V.V. è il moto di avversione che si sviluppa nei confronti di uno o più partecipanti al ritiro. In mancanza di meglio la mente si focalizza su difetti  e mancanze del soggetto in questione. Spesso il pretesto iniziale è insignificante, come l’apparenza, il rumore dei passi, il luogo prescelto per la seduta e camminata ecc. Quindi, col passare del tempo,  il nostro interesse s’intensifica ed usiamo al meglio tutta la nostra consapevolezza per tutto ciò che di disdicevole è possibile notare.

È inevitabile che le prime V.V e V.R. siano travolgenti. Successivamente, quando se ne è fatta conoscenza, e soprattutto quando se ne riconosce il sorgere, il fenomeno si affievolisce. Rimane comunque un’esperienza da cui imparare notandone le variazioni ed evoluzioni.

Gli insegnanti del mio primo ritiro erano (sono) una coppia. La simpatia e l’interesse che provavo per lui erano direttamente proporzionali all’antipatia che provavo per lei. Quando col tempo lei cominciò a risultare meno antipatica, lui cominciò a risultare meno simpatico.

Un po’ come se l’energia che investiamo in un’ infatuazione (evidente in V.R.) potesse prosciugare l’energia solitamente dedicata ad altre aree (interessi, rapporti ecc.)

E’ probabile che V.V. non arrivi in fondo al ritiro e che,  quando al Nobile Silenzio si sostituisce la parola, che velocemente ritorna ignobile, si scopra come l’oggetto della nostra avversione sia sorprendentemente diverso da ciò che ci aspettavamo. Si scopre che la realtà non è obbligata nei nostri confronti e che conviene guardare con circospezione alle nostre piroette intellettuali.

 Può essere importante tornare sul rapporto tra rabbia ed energia. E’ noto che la rabbia mette in circolo, ‘brucia’ una grande quantità di energia. E’ possibile che certi soggetti avvertano mancanza di energia (magari sonnolenza durante i ritiri) per averne precedentemente dilapidata sull’altare della ‘sacrosanta’ rabbia.

D’altro canto, mi sembra che il temperamento collerico sia spesso anche molto energetico e determinato. Prevedibilmente chi si ritrova su questo sentiero di liberazione, con queste caratteristiche mentali, progredirà a prezzo di aspre battaglie.

L’energia è intrinseca all’impegno fisico, e lo sforzo fisico sovente si combina con la rabbia. La coniugazione rabbia – energia segue dei percorsi anche piuttosto articolati.

Ricordo che in un periodo in cui affrontavo delle giornate di lavoro potenzialmente molto impegnative, mi ritrovavo a coltivare pensieri di risentimento durante il tragitto in macchina. I soggetti potevano essere i più disparati. Un soggetto favorito era rappresentato dalle gravi ingiustizie in terra di Palestina. Era un po’ come darsi la carica per affrontare la giornata con la grinta giusta, un fare colazione con la rabbia che, appunto,  aveva anche un sapore …. Di schiuma nel petto.

Caldamente invito a non ripercorrere questi miei precedenti.

Più precisamente la fatica, che è mancanza di energia, sembra essere almeno una puntuale circostanza collaterale allo sbotto di rabbia; e ancora una volta, il soffermarsi sulle sensazioni fisiche, spesso localizzate nelle parti del corpo interessate dallo sforzo, diviene un passaggio chiave

 

“Sono già arrivato alla fine e non me ne sono neanche accorto!”

Tra successi e fallimenti, distrazioni e attenzione focalizzata, concentrazione e,  alla prossima,  tra raccoglimento e consapevolezza

di Rodolfo Savini

 Perché il mio tempo cambia estensione, ora vola, ora sembra non passare mai? Può mutare la sua “durata” a seconda di ciò che mi sta accadendo? Coinvolge l’emotività, ma quale relazione ha con l’attività razionale?

La “durata” cambia continuamente a seconda della prospettiva da cui ne guardiamo lo scorrere. Vale a dire che ci appare più lunga all’inizio di ciò che stiamo intraprendendo, più breve quando ci volgiamo ad essa come qualcosa di già trascorso; quando è un’introduzione o quando è un epilogo.

Il tempo ha in sé una forte connotazione emotiva; così al cospetto della tristezza diviene rimpianto, melanconica nostalgia; al cospetto della vitalità diviene entusiasmo progettuale, creatività. La tristezza ci volge indietro al prima  rendendo nebbioso il dopo, la vitalità al contrario fa calare la propria ombra sul prima  e rende ampio il dopo. Sia nel mondo esterno che in quello interiore nulla rimane immoto e questi stati d’animo possono, incontrando le nostre problematiche interiori o esteriori che siano, subire un cambiamento di rotta.

Per esaminare la “fretta” o meno che ha il tempo possiamo distinguerne uno cronologico e uno interiore. Il senso di “ieri”, “oggi” e “domani” non posso esplicitarlo che alla luce di uno sguardo carico di aspettative più o meno positive. Senza rendermene conto il tempo si dilata o si restringe  nella sua durata. Nel tempo cadenzato dall’orologio, dall’agenda e dal calendario, così logico e razionale possiamo trovare “qualcosa” capace di romperne la struttura compatta, qualunque imprevisto, pur banale che sia, ne infrange la presunta sicurezza.

Il tempo cronologico, con il suo scorrere, è il tempo in cui si sviluppa soprattutto la nostra attività razionale, il nostro progettare ricco di condizioni mai sufficienti a dar ragione dell’imprevisto.  Se non riusciamo a concludere un’iniziativa intrapresa può essere facile attribuire la responsabilità a cause “esterne” che si sono venute a creare e che ne hanno reso impossibile il risultato atteso. La presa d’atto consapevole di tali cause permettere di vedere con chiarezza la lacerazione che è sempre presente tra “io voglio” e “io conseguo”.

Se i progetti vanno in porto il tempo cronologico avvalora la motivazione che viene così rafforzata ma sorge la minaccia dell’orgoglio; se falliscono la demotivazione è alle porte, con le sue oscure conseguenze.

Siamo sempre sottoposti al rischio che la ruota del tempo  ci faccia “partire per la tangente” se non riusciamo ad assecondarne i momenti sempre diversi con cui ci troviamo a confronto. Smussare l’orgoglio serve per comprendere appieno il successo; non farsi annebbiare dalla depressione è uno stimolo a riemergere dai fallimenti.

Conoscere il tempo è viverlo nel suo mutamento, è apprenderne l’insegnamento. Imparare che già basta un atteggiamento superficiale o uno sguardo annoiato per non farci vedere lo “scollamento” tra il progetto e sua realizzazione con la conseguenza di vedere il tempo come uno schieramento compatto contro cui “battersi”. Individuare e riconoscere questo scollamento è trovare uno spazio in cui avviene qualcosa di segreto che non ha a che fare con il prima e con il dopo; è lì, ma non lo vediamo presi come siamo dalle cose.

L’ansia di voler riempire questi spazi fa perdere ai medesimi la loro leggerezza e la loro intensità, li arrugginisce, li soffoca. Ogni passo che compiano diviene allora un peso, una lotta da cui scaturisce un agire disordinato e conflittuale. I nostri passi graffiano la terra e divengono tutt’altro che sicuri, spesso si contraddicono o si impongono, spesso il dubbio li paralizza o la presunzione li esalta, la sfiducia li spegne rendendoli vicoli ciechi o al contrario li rende presuntuosi. Questo sforzo ci fa scordare la meta o comunque ce l’allontana sempre di più. Quindi o vagare qua e là alla cieca o cercare di ridare senso anche a “quel passo” cui ne seguirà un altro e così via: ognuno servirà a mettere meglio a fuoco dove giungere per poterci riposare, prima di ripartire.

La distrazione, cioè un’attenzione focalizzata ma senza determinazione, è apparentemente un buon strumento per ridare vitalità alla mente, per superare quello spazio tra il partire e l’arrivare.  È facile ricordarci in quante occasioni, proprio perché distratti, si sia arrivati a quei risultati che dapprima sembravano irraggiungibili. Quasi ogni nostra esperienza può essere addotta come esempio. Quando si fa trekking si arriva “prima” se nel tragitto parliamo con un amico, quando si è in treno si arriva “prima” se abbiamo un libro interessante sotto mano.  Per molti di noi basta farsi accompagnare da una musica che quel lavoro noioso passa “senza accorgersene”. Se riusciamo a “trasferire” l’impegno che ci è richiesto su “qualcosa” d’altro, al momento “più” interessante, tutto sembrerà più facile. La distrazione è un “dimenticarsi” del tempo. Quello spazio e quel tempo sembrano misteriosamente accorciarsi. Ciò può avvenire anche in un senso “costruttivo”. In un viaggio in macchina, per esempio, la monotonia può essere rotta dal rivolgere l’attenzione, in questo caso già un’attenzione focalizzata, ad un progetto da realizzare con conseguenze brillanti anche se, come “costo”, può rendere più automatica e meno sicura la guida. 

Questa dinamica funziona anche all’opposto. Se su quel treno chi ci è vicino chiacchera a gran voce con un altro o al cellulare ci sarà difficile “distrarci” e quel viaggio sembrerà “interminabile”.  Se si crea un ingorgo imprevisto sull’autostrada, certo non si sarà più capaci di definire progetti e prospettarne sviluppi.

L’attenzione focalizzata può quindi essere capace di farci arrivare “prima”. In certi casi però vorremmo, al contrario, che il tempo non “passasse mai”. In tal caso il punto di partenza e quello d’arrivo sembrano separati da un lasso di tempo”infinito”.  Se un’esperienza è piacevole, infatti, vorremmo protrarla “per sempre”. Questo spazio infinito tra il prima e il dopo viene tenuto aperto da questa forte tensione. Così avviene nell’ultimo sforzo prima dell’arrivo di una corsa, al momento di un esame, ad un paesaggio inaspettato. In questi momenti ci dimentichiamo di ciò che abbiamo fatto e di ciò che faremo. Lo spazio tra il prima e il dopo si dilata e non c’è parola che emerga e a questa dimensione temporale non si può sfuggire anche se la mente fa presto a colmarla con il suo chiacchiericcio, con il ripresentarsi della necessità di un ritorno al mondo abituale popolato di giudizi. In questi momenti di forte intensità allattenzione focalizzata è richiesto un così grande sforzo che è lì lì per incepparsi. Il fluire del tempo rende ogni momento uno scontro con se stesso. Può accadere che davanti a queste resistenze, sperimentate come insuperabili, la mente si rifiuti di “restare” nella situazione ed esploda, con la stessa energia, in direzioni del tutto divergenti, p.es. con un eccesso di rabbia o con un mangiare nervoso. La concentrazione non è riuscita a stare con se stessa.

Se la mente si scopre incapace di distrarsi e ancor più a focalizzarsi su un oggetto/relazione pur fragili che siano, ci si può trovare al cospetto di un’emozione che si spegne e si dissolve nella noia. Siamo davanti a quell’ “Uffa quando si arriva” che sentiamo spesso in bocca ai bambini allorché quel “viaggio” sembra non finire mai. È proprio quando l’attenzione focalizzata fallisce e la mente scivola nella noia che la distrazione perde la sua debole energia e la mente si volge verso una invadente demotivazione con i suoi successivi aggravi. Nel caso della noia infatti la nostra mente perde consistenza  e diviene incapace di “far presa” sulla realtà interna o esterna che sia: quel lasso di tempo tra partenza e arrivo sembrerà una palude invalicabile.

Successi; fallimenti; distrazioni; mente vagante; rischio della noia e della demotivazione; ricorso, più o meno consapevole, ad una “attenzione focalizzata”; la qualità della situazione: modi diversi che cadenzano il nostro procedere nel tempo, fatto di pieni e di vuoti, di certezze e di fragilità, di senso  e di non senso.

L’attenzione focalizzata può  consistere, e in questo si avvicina alla distrazione, in quel motivetto pubblicitario che la nostra mente ha assimilato e che continua a ronzarle dentro facendoci dimenticare così del tempo cronologico. L’attenzione focalizzata può anche sostenere un “pensiero concentrato” capace di riemergere allorché venga sopraffatto. Il tempo viene “indirizzato”. Nulla però ci dice sulla “qualità” di questo pensiero che può convergere sia verso il bene, per sé e per  gli altri, sia verso il male per sé e per gli altri. A questo “pensiero fisso” possiamo dare il nome di concentrazione. Qualità indispensabile sempre, per agire con efficacia, sia al chirurgo per operare con precisione, sia a chi pulisce casa per non rompere nulla. La concentrazione può rivolgersi a qualsiasi oggetto ed è un movimento consapevole della mente per fermare il vagabondare dei pensieri. Con la distrazione tale atteggiamento manca, con l’attenzione focalizzata questa concentrazione può avvenire ma è pur sempre occasionale e non consapevole.

Fluire nel tempo è un andare a “scuola”; è apprendere che nell’inciamparmi trovo un’occasione per imparare a rialzarmi così come nel camminare trovo un’occasione per prestare attenzione a dove metto i piedi. Il tempo è lo spazio in cui coltivare la fiducia nel procedere, che a sua volta aiuta a capire e a sua volta ancora aiuta a gioire. Come è difficile scrivere questa parola eppure dobbiamo farlo perché è proprio nel movimento del corpo, del respiro, del sangue, dei pensieri che abbiamo la possibilità di comprendere che cosa vi sia tra un passo e l’altro: quel delicato equilibrio che abbiamo acquisito nell’arco di millenni e che ormai diamo per scontato. L’equilibrio non è altro che una parola diversa per esprimere l’equanimità, la capacità del retto vedere e quindi di comprendere dove stiamo andando, tra passato e futuro, tra ieri e domani, tra un passo e l’altro, tra un respiro e un altro. Laddove il gong batte per ricordarci che siamo qui.

 

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