search
top

Trimle ott – dic 2007 n° 4 Anno IX

  • “La Nobile Verità del Nirvana, spunti di riflezzione” di R. Savini
  • L’avversione  Ludovico Petroni ultima parte
  •  

     La Nobile Verità del Nirvana     15 novembre, spunti introduttivi

    di Rodolfo Savini

     Il senso del proprio operare indubbiamente deriva da ciò che mi è accaduto. Il mio passato è una fonte di energia accumulata, fatta non solo di “ricordi”, ma di una “memoria”  via via più profonda e lontana. Entrambi, in un interagire oscuro da districare, la forza karmica, ci riconducono, al di là della nascita attuale, a tutte le forme cui il mio aggregato di corpo, sensazioni, percezioni, impulsi e coscienza è passato attraverso rinascite senza inizio. Dentro di me, dentro ogni cosa vivente, c’è la storia dell’umanità di cui non si cerca necessariamente l’origine altrove, ma si apprende a leggere ciò che emerge alla coscienza, perché anche lì è celato il “senso” di ciò che accade.

    È vero quindi che le mie scelte attuali non sono del tutto “libere” ma devono fare i conti con queste predisposizioni condizionanti. In questo “peso” vi sono tracce di diverso “colore”, dalle più luminose alle più oscure, dalle più consapevoli alle più ottenebrate: a quali dare retta oggi nelle mie scelte?

    Ecco uno dei significati della meditazione. Riuscire a fermarci, a sederci, a sentire il protrarsi in forme diverse di questa pressione karmica che continua ad emergere, vulcano mai conosciuto, mai spento. Sono immagini e suggestioni, timori e paure ormai integrate nel nostro “carattere”. Il “sono fatto così”, mi spinge a continuare ad esserlo, diviene un’abitudine cui mi identifico. Ciò è vero anche per il contrario, con il “non valgo niente” percorro la stessa strada. Orgoglio e commiserazione sono parenti stretti. Sono una “certezza”, è vero, ma solo fino a quando qualcosa non li scuote.

    La meditazione è la scuola della pazienza e della perseveranza, dare tempo a questo passato di “maturare”, di emergere, di riconoscerlo; allora posso sputarlo fuori di me, gettarlo via, oppure sperimentare che questo peso è lì solo perché la colla dell’ignoranza lo tiene stretto, lo fa diventare qualcosa di compatto che diviene tutt’uno, a un primo sguardo, con la mia coscienza. Sputarlo vorrebbe dire allora perdere un’opportunità, quella di “trovare” il solvente capace di ammorbidirne la stretta, scoprire un tale solvente è una scoperta stupenda, è l’emergere della consapevolezza nella nostra coscienza. Ma occorre   ricordarsi  di avvalersi di questo solvente. Allora il vario sovrapporsi di        pag. 2 giudizi disparati: p.es. “come posso pensare questo! Io non sono così!”, “guarda come sono bravo!”, e quanti altri ben più acerbi e coinvolgenti, appaiono sempre più  come un chiacchiericcio della mente, qualcosa da conoscere più che eliminare.

    La consapevolezza è un’attitudine che si può cimentare dapprima con i piccoli turbamenti quotidiani, che creano un gioco di luci e di ombre, come le foglie di un albero attraversate dalla luce del sole.

     Apprendiamo così che la consapevolezza non ha nulla di rigido e di immobile è tale solo se riesce momento per momento a “riconoscere” le foglie che emergono alla luce della propria presenza mentale. Se riesco, con la pratica formale, con il tranquillo sedermi e fermarmi, a fare i conti con questo variegato scintillio di contenuti mentali, solo allora riesco, una volta “seccate” le foglie con un’attenzione perseverante, a scendere in profondità, laddove attaccamento e avversione, piacere e dolore, divengono sempre più taglienti, pervasi dall’incertezza.

    Questo è l’incontro, al di là delle foglie, con il tronco della nostra coscienza: le molteplici paure di accorgersi che ciò che piace è sospeso ad un filo. Già qui verrebbe voglia di desistere tanto è amara questa constatazione, ma è allo stesso tempo un confronto ineludibile.

    Quel perseverare nel sedersi, nell’affacciare la nostra consapevolezza ancor più a fondo, verso le radici dell’albero, sembra condurci al luogo in cui il raccoglimento introspettivo può divenire stabile e questo è vero, se riusciamo a “vedere”, a porci silenziosi al cospetto dell’ultima, radicale paura: l’io.

    La natura del nostro io è abitualmente quella di fuggire da sé, di dimenticarsi di sé, di andare altrove per trovare là il proprio senso, la propria ragion d’essere. La meditazione di consapevolezza limita queste vie di fuga, riconoscendole per quello che sono; allora il nostro io si trova solo al cospetto di una natura che appaga, ma pretende e continua a pretendere.

    La silenziosa e ferma presenza della consapevolezza, non tranquillizza, ma rappacifica, e può riuscire a smussarne quell’ansia radicata dentro di me, quel torpore radicale, quella superficialità e ignoranza che ci rendono estranei al senso delle cose. Può darsi che si cominci a “vedere diversamente”, a mettere in discussione se stessi. Dalle foglie dei nostri pensieri, al tronco delle nostre emozioni più coinvolgenti, siamo  prossimi alle radici.                                                                             

    La consapevolezza è così sottile che non si ferma neanche qui. In questo spazio così profondo è messa ancora a confronto con chi in queste radici ha eretto la propria dimora sicura: l’io.

    La consapevolezza, mossa dal filo del respiro, dal tocco del cuore, da un’attenzione aperta e sensibile entra a contatto con la presunzione dell’io di “essere qualcosa”.

    Possiamo da un lato tenere ben chiusa e sigillata la porta del nostro io, d’altro possiamo cercare di vedere cosa accade se mi lascio guidare dalla consapevolezza. Così come l’io vuole sempre di più, così anche la consapevolezza vuole sempre di più; l’uno però nel senso del “possedere”, l’altra nel senso di contemplare la miriade di sensazioni che pervadono la vita in ogni direzione dello spazio e del tempo. Quell’io che si consolida e si irrigidisce su  se stesso e lo stesso io che nasconde al suo interno una profondità sconfinata se riesce a trovare la chiave per decifrarla.

    La chiave  è la consapevolezza e le sue vie non sono quelle del mondo, sono vie sconosciute, inesprimibili; sono vie in cui la consapevolezza non disconosce nulla, è flusso che si fa toccare ugualmente da tutto. Allora veramente in quell’albero essa trova le proprie radici che la rendono universale e cosmica. Il nirvana.

    Non ci sarà più giudizio allora? Non ci sarà più discriminazione? Si giustificherà tutto? Si accoglierà tutto? Così potrebbe sembrare. La consapevolezza si è volta così dentro di noi che riposa, osservatrice attenta, nella profondità della nostra coscienza e la coscienza, da parte sua, libera dalle sue radici egoiche, trova  nella consapevolezza il senso di sé. La consapevolezza del silenzio in cui nulla parla eppure si sente la voce di tutto. Immersa dentro di noi è essa stessa un seme che cresce e matura; lo stesso albero, lo stesso tronco, gli stessi rami e foglie sono come prima eppure sono diversi. Nulla più sarà però finalizzato ad una gratificazione dell’io. Attraverso il suo occhio vedrà come nella superficialità delle cose perduri ancora quell’amaro e cieco comportamento reattivo, quelle preferenze pronte a divenire conflitti, quella eterna lotta tra ignoranza e ignoranza, tra male e male. Vedrà  la drammaticità della nostra condizione umana che non è riuscita ancora a optare per la comprensione di ciò che accade, ma che cieca continua rimbalzare da un dolore all’altro, dal compiacimento al disgusto, dal fanatismo alla violenza.                                                                   

     Il Nirvana è allora un inerte osservare, è la passività di un “comprendere”, di un’accettazione che sa di rassegnazione? L’estinzione di ogni desiderio, di ogni avversione, di ogni attaccamento, di ogni paura è un mondo in cui nulla più nasce, nulla più muore. Può sembrare una terra, all’apparenza così desolata,  in cui non vi è dolore perché sembra non esservi più vita, scompare la “grande paura” ma con essa anche l’adesione alla vita. Eppure il mio Grande Desiderio del Nirvana è sempre quello di aver la paziente fermezza di attendere che l’io, non più innaffiato dall’ignoranza, posso pian piano seccarsi nelle sue radici. È in questo silenzio del cuore che si apre la porta verso il nirvana.

     Questo deserto, vuoto di tutto, permette l’incontro inaspettato con il bene e la bellezza di un’altra pratica meditativa, la meditazione camminata. Ciò che la meditazione “seduta” aveva fermato, per conoscere in ogni sua fascinazione l’attività di una mente pervasa da desideri contraddittori, diviene ora la scoperta di una meditazione “camminata”.

    Il corpo, il respiro, la mente non sono sbilanciati altrove, i loro passi non fanno cadere tra il volere e il non volere, tra un giudizio e l’altro, sono qui sorretti da una consapevolezza che li accompagna. Chi solo ha intravisto il nirvana, la morte degli attaccamenti e dei desideri, è libero da ogni preferenza, ogni passo è mosso dall’equanimità che crea pace, non quella delle tregue tra eserciti opposti, quella che rinnova la disponibilità alla reciproca comprensione, al sorriso e all’abbraccio. Ci può essere allora chi intorno a noi percorra la terra seminando ad ogni passo radici di nuove piante, di nuovi alberi di nuove foreste che ora proteggano e non imprigionino.  Piante senza radici egoiche, piante in cui la molteplice suggestione delle mille foglie colorate non fa emergere conflitti, ma una gioia partecipe. L’intuizione che il nostro agire abbia un significato “diverso”. Il passo di chi ha incontrato, in questa nudità radicale, un barlume, un lieve raggio della luce del nirvana, del senza-morte, non lascia ricordi e memoria, non lascia il peso condizionante degli impulsi karmici, è un passo libero, che avvicina, che unisce, creatore di pace. Il nirvana è il luogo a cui giungere e da cui prendere le mosse con i nostri passi.

      

    L’avversione  

    di Ludovico Petroni                                                

    (precedenti: trim.le 3/06; 1/07, 4/07 conclusione) 

     Il mio personale temperamento collerico ha avuto come naturale palcoscenico il cantiere di lavoro di turno. Gli sbotti d’ira spesso inerenti ‘il non ottenere ciò che si vuole è Dukkha’  (Dhammachakkha sutta e altrove) rappresentano per me sconfitte piuttosto frequenti. Nonostante ciò, ancora confido nella vittoria finale, o almeno cerco di notare dei miglioramenti: se anche non la posso evitare, rimango travolto dalla rabbia molto meno tempo e, solitamente, si trasforma da pulsione dolorosa da riversare all’esterno con tutti i danni del caso, in dolore sordo e muto del tipo ‘ci sono cascato un’altra volta’, che è un po’ una seconda frecciata, ma è anche un po’ compassione per me stesso e relativa assenza di danni collaterali.

    Mi consolo anche considerando che la mia modalità rabbiosa,  per quanto frequente e palese, forse non è la più dannosa. Ci sono modalità meno evidenti, persone per cui lo sbotto di rabbia non è un problema particolare, ma che, inconsapevolmente, mossi dall’avversione compiono importanti scelte vitali: per avversione si sceglie dove vivere, con chi vivere, come vivere ecc. Da tutto ciò mi sembra di essere poco affetto. ‘Siamo ciò che pensiamo, tutto ciò che sperimentiamo è prodotto dalla nostra mente. Ogni parola o azione che nasce da un pensiero torbido è seguita dalla sofferenza, come la ruota del carro segue lo zoccolo del bue’  (versi iniziali del Dhammapada)

     Una considerazione merita la cupa afflizione della mente ipercritica, giudicante, contrariata, abitualmente votata a soffermarsi sulle negatività e sulle mancanze, finalizzata a sviluppare divergenza di opinioni. Il bicchiere è mezzo vuoto e non si vede mai ragione di gioire, se anche si fa qualcosa alla perfezione non la si apprezza. Sullo sfondo c’è un umor nero di infelicità di cui non si vedono le origini- motivazioni, ma che, anche se verbalmente inespressa, contagia i vicini ed appesantisce l’atmosfera.

    A volte il soffermarsi sui difetti altrui ci consente di sollevarci nei confronti del prossimo e di coltivare un sentimento di superiorità. Altrimenti giriamo il coltello nelle nostre piaghe insanabili, alimentando un complesso di inferiorità, di inadeguatezza, indulgendo nell’insicurezza e nel dubbio che spesso risulta letale per la pratica.

    Tutta l’area dei complessi di superiorità, di inferiorità ed (in Buddhismo) di uguaglianza, tutta la problematica di come siamo abituati a porci nei confronti del prossimo, mi sembra rimanga un po’ negletta, benché ci siano indicazioni di meditazione utilizzabili suggerite dal Buddha:

     quale effettivamente è stato ed è, per il nostro cuore, il potere destabilizzante del piacere e del dolore, del guadagno e della perdita, della fama e dell’oscurità, dell’elogio e della critica?

    Mi soffermo su questi motivi, perché sono utili ad illuminare l’area della valutazione di sé, la percezione di sé, così intimamente vincolata al giudizio che altri hanno di noi, all’immagine di noi che ci sforziamo di propinare agli altri. E soffriamo quando la nostra immagine vacilla, ci infuriamo quando l’immagine collassa, per il fallimento personale, per non esser riusciti in ciò che ci si aspettava. Nella vera sala di meditazione,  che è il posto di lavoro, non mi turbano gli errori altrui, ma sbotto quando l’immagine che crolla è la mia, lasciando scoperte fondamenta di intima fragilità. A volte l’IO duole direttamente.

    Potrebbe sembrare difficile discernere tra la mente giudicante-negativa  ed una saggia attività di analisi. Diviene chiaro però che il borbottare di critiche e giudizi viene da un luogo di dolore, l’acume con cui si evidenziano le pecche viene da una contrazione penosa, la parola sarcastica e venata di malizia, ancorché socialmente gradita, indica paura, disagio sottile.

    L’esser capaci, con grande acume e grande soddisfazione, di rilevare difetti e mancanze non è la cosa più intelligente che si possa fare, perché ciò che alimenta tale tendenza è una sotterranea dolorosa vena avversiva di cui conviene liberarsi.

    Forse, qui in Toscana la prossimità tra un certo tipo di intelligenza ed una verve avversiva che conduce alla discordia è particolarmente evidente. Ci compiacciamo ancora del genio di certi personaggi di un passato in cui, per una patologica litigiosità, si divisero tra Guelfi e Ghibellini. La fazione prevalente subito si divise in Bianchi e Neri. Quando non si trova più un nemico contro cui schierarsi fuori o dentro le mura ci si infervora per tornei in cui si confrontano rioni e contrade, purchè rimanga una buona scusa per schierarsi ed eventualmente darsele di ‘santa ragione’

    Il moto d’identificazione che contribuisce alla compattezza di un gruppo è tanto più spiccato nell’evenienza del confronto: siamo Italiani perché di là ci sono i Francesi, gli Austriaci ecc., se non ci fossero individui che si identificano come Francesi, verrebbe meno l’essere Italiani. Questo è un meccanismo trasversale in tutte le possibilità di comportamento sociale basilare nello sviluppo del conflitto. Probabilmente coloro           pag. 7  che s’identificano come praticanti di discipline spirituali avranno conosciuto tensioni e conflitti potenziali e o conclamati legati all’appartenenza a gruppi diversificati in cui il proprio insegnamento, credo, metodo di meditazione è corretto e qualunque altro conseguentemente sbagliato.

    Spero infine che questo mio contributo sia di beneficio e di chiarimento, che non produca confusione ed incertezze, perché finchè dipingeremo la vita della mente con le parole commetteremo degli errori.

    ””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””””

    Nirvana significa estinzione. Estinzione di cosa? Estinzione di tutte le idee: del concetto di nascita e morte, di inizio e fine, di essere e non essere. Se sarete in grado di toccare il livello dell’essere, il Nirvana, potrete fare esperienza di una pace e di un benessere illimitati.
    Nel Buddhismo siamo soliti parlare delle due dimensioni della realtà. La prima dimensione è chiamata storica: tempo, spazio, essere, non essere, nascita e morte sono visti spesso soltanto nella loro dimensione storica, ma se si tocca la dimensione storica molto in profondità è possibile scoprire l’altra dimensione, che è chiamata dimensione ultima. La dimensione storica e la dimensione ultima non possono essere separate, come le onde non possono essere separate l’acqua. Quindi, la pratica più profonda, per un meditante buddhista, è toccare il Nirvana, la dimensione ultima.

    da Thich Nhat Hanh  “Padre nostro che sei nel nirvana”

     

       

     

    Comments are closed.

    top