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Trim.le gen-mar 2008 n° 1 Anno X

Anno X n° 1 ( Gennaio – Febbraio – Marzo 2008 ) 

  • Il Nobile Ottuplice Sentiero” di L. Petroni
  • “Il Grande Desiderio del Nirvana”di R. Savini
  •  IL NOBILE OTTUPLICE SENTIERO

    di Ludovico Petroni      

             La Quarta Nobile verità è la via che conduce all’esaurirsi della Sofferenza ed è conosciuta come “Via di mezzo” (Majjhma Patipada) perchè evita due estremi: un estremo consiste nel nostro costante impegno a soddisfare il desiderio, a ricercare ed indulgere nel piacere, nella comodità, nella sicurezza; l’altro estremo consiste nel sopprimere/reprimere psicologicamente, nell’eccesso di tensione che impedisce un naturale fluire, nell’automortificazione tipica delle varie forme ascetiche in uso ai tempi del Buddha.

    Infatti la scoperta di questa Nobile Via di Mezzo da parte del Buddha avvenne dopo un lungo periodo di estremo rigore ascetico che Siddharta decise finalmente di interrompere alimentandosi con una tazza di riso e latte generosamente offertogli dalla pastorella Sujata, quindi, dopo un bagno ristoratore, le energie di Siddharta si riequilibrarono e si predisposero per l’esperienza dell’illuminazione quella stessa notte.

    Inoltre sembra essere l’esperienza di molti meditanti che certe importanti realizzazioni avvengano al momento di allentare la tensione immediatamente successivo ad un periodo di pratica intenso.

    Questa Nobile Via di Mezzo che, se percorsa, può apportare un sensibile miglioramento delle esistenze, è anche chiamato Nobile Ottuplice Sentiero (Ariya Atthagika – Magga) in quanto che si considerano otto aree di interesse che contribuiscano a svilupparsi reciprocamente, cioè ognuna aiuta la coltivazione dell’altra .

    Queste otto aree puntano canonicamente a promuovere e perfezionare tre essenziali discipline di preparazione Buddista, cioè la Condotta Etica (Sila), la Disciplina Mentale (Samadhi) e la Saggezza (Panna).

    E’ una vera sfortuna che alcuni insegnanti di meditazione trascurino lo sviluppo di una condotta etica (Sila), costituita sulla concezione di Amore e Compassione universale, sul quale l’insegnamento del Buddha  è basato e che comporta una sana motivazione per qualunque successiva forma di sviluppo mentale. Ci è familiare e di aiuto il “non fare agli altri ciò che non vorremmo fosse fatto a noi”, anche se bisogna aggiungere che a volte si può fare del male agli altri proprio perché non amiamo noi stessi. A questo riguardo, la scoperta della Compassione per se stessi risulta portare un contributo di essenziale sincerità ed onestà in ogni praticante.

    Per migliorarsi come esseri umani, due qualità dovrebbero essere sviluppate equamente: la Compassione, il calore del cuore, l’amorevole gentilezza e tolleranza, che costituiscano il lato emotivo e la Saggezza, che, ben bilanciata, costituisce il lato razionale/intellettuale.                               

    Nella Condotta Etica basata su Amore e Compassione   inclusi i tre fattori della Giusta Parola, Giusta Azione, Giusto Modo di Vivere.

    La Giusta Parola  (Samma vaca) è una parte enorme della pratica, tanto che uno dei cinque precetti fondamentali ci aiuta direttamente a considerare attentamente questa area in cui è estremamente facile ferire noi stessi e gli altri. Giusta Parola significa non dire bugie, non parlare in modo (con l’intenzione) di provocare odio, inimicizia, separazione, risentimento, disarmonia tra gli individui; parlare alle persone giuste nel momento opportuno con il linguaggio appropriato; evitare il parlare frivolo e rude, evitare il pettegolezzo ed anche il riferire ciò che di non benefico viene detto dagli altri. (Rimane un gran spazio per il Nobile Silenzio). A volte ci piace dire cose vere che feriscano gli altri e lo facciamo dichiaratamente per “amore della Verità”, anche quando potremmo evitarlo. A volte si rovinano datate relazioni di amicizia per il desiderio di dire la verità, che stranamente viene meno quando la suddetta verità può ferire noi.

    La Giusta Azione (Samma Kammanta). Ciò che facciamo ha conseguenze future per noi e per gli altri, soprattutto quando agiamo “intenzionalmente”. Sarebbe bene, prima di compiere una azione, chiederci se è benefica o no, per noi, per gli altri, ora o in futuro. Si potrebbe scoprire che un’infinità di comportamenti che ci procurano piacere, comodità e sicurezza vengono pagate dagli altri e spesso comporteranno un peso insostenibile per coloro che non sono ancora nati. Un importante precetto viene spesso tradotto con “Non Rubare”. A volte, però, lo si sente tradurre più accuratamente con “Non prendere ciò che non ci sia stato dato liberamente”, il che amplia il panorama considerevolmente.

    Il Giusto Modo di Vivere (Samma ajiva). Scegliere una professione che non comporti provocare dolore, danno o morte per gli altri esseri senzienti, Tradizionalmente si stigmatizzava chi per professione uccideva o commerciava in animali o uomini, chi produceva o commerciava armi e veleni. Probabilmente ognuno può fare del suo meglio nell’ambito della propria professione, ove magari sia possibile non sfruttare avidamente il prossimo (che è un furto); quel che conta poi è l’intenzione, che effettivamente comporta la gravità delle conseguenze. Comunque, sono molto contento di non fare l’avvocato o il commercialista.

    L’osservazione di questi tre fattori che costituiscono la Condotta Morale conduce ad una vita più felice ed armonica, oltre ad essere un fondamento indispensabile per lo sviluppo spirituale.

     Quindi passiamo a considerare la Disciplina Mentale che include altri tre fattori del Nobile Ottuplice Sentiero.

    Il Giusto Sforzo (Samma vayama) Sembra che il Buddha abbia parlato del Giusto sforzo più di qualunque altro argomento nei 45 anni dedicati all’insegnamento. Soprattutto qui è dove diviene importante evitare gli estremi: sviluppare la mente è un po’ come accordare uno strumento  musicale: può produrre buona musica solo se le corde non sono nè troppo tirate nè troppo lente. Il nostro sforzo  (o impegno) sarà dedicato a 1- prevenire il sorgere di quelle condizioni mentali non benefiche che non siano ancora sorte; 2- liberarsi di quelle condizioni mentali non benefiche che fossero già sorte; 3- far sorgere quelle condizioni mentali benefiche che non sono ancora sorte; 4- mantenere e perfezionare quelle qualità mentali benefiche che siano già sorte.

    La Giusta Consapevolezza (Samma sati) senza questa è come insegnare pittura ad un cieco. E’ la facoltà che più direttamente viene sviluppata attraverso tecniche di meditazione. E’ la capacità di vedere, una specie di supervisione di ciò che accade nel corpo-mente. Soprattutto è la capacità di vedere ciò che è benefico e ciò che non lo è.

    Ci sono quattro aree che la Giusta Consapevolezza si trova ad esplorare: una per il corpo (che include Anapanasati, la consapevolezza dell’azione respiratoria) , tre per la mente, a cominciare dalle sensazioni piacevoli, spiacevoli o neutre. con cui la mente risponde continuamente alla miriade di stimoli che la colpiscono anche attraverso le porte sensoriali; a seguire gli stati mentali, cioè riuscire a riconoscere gli umori ed i moti della mente, che colorano momento per momento l’esperienza esistenziale; infine il variegato resto delle attività mentali che possono nobilmente includere i più noti motivi del Dhamma.

    Il terzo ed ultimo fattore della Disciplina Mentale è la Giusta Concentrazione (Samma Samadhi) Io preferisco parlare di raccoglimento, non riconoscendo sperimentalmente come importante tutta la canonica lista dei vari livelli di concentrazione (Dhyana). Mi limito a dire che ad un certo punto è opportuno che la mente si dedichi ad una sola attività per volta, senza soffermarsi a dare valore coinvolgente ai fenomeni psichici che si possono incontrare. Inoltre manifesto il sospetto che non sia necessariamente utile, per vedere ciò che è benefico o no nelle nostre vite, raggiungere stratosferici livelli di concentrazione.

     I rimanenti due fattori costituiscono la Saggezza (panna)

    Il Giusto Pensiero (Samma sankappa) Credo di aver incontrato almeno tre o quattro parole Pali che in Italiano vengono tradotte con “pensiero”. Il Giusto Pensiero relativo alla Saggezza è un pensiero che non è invischiato nel “sogno incentrato su noi stessi”: è un pensiero senza attaccamento, senza coinvolgimento personale, che non implichi  egoistiche impurità e la nascita di un Io. Ad esempio, Giusto pensiero è un pensiero di Amore e Pace universale.

    Infine la Giusta Comprensione (Samma ditthi) è la visione delle cose per quello che sono (cioè senza ciò che l’ignoranza può aggiungere), vale a dire la visione della realtà attraverso la assimilata Verità di Dukkha, il suo esistere, le sue cause originali ed il suo estinguersi. Anche la sola considerazione dell’universalità del Dolore e l’ineluttabilità della Morte possono porre le nostre esistenze in una prospettiva ben più significativa.

    Giusta Comprensione è la visione della realtà nella sua assenza di stabilità, fermezza, concretezza; le cose non sono … diventano.

    C’è un tipo di comprensione superficiale, che è il prodotto finale di una intellettuale somma di memorizzazioni limitatamente riferita (anubodha)

    E c’è una visione intuitiva più profonda, figlia del licenziamento del pensiero discorsivo, al di sotto dei nomi e delle etichette di limitato relativo riferimento, che penetra (Pativedha) ben oltre l’intrigo di idee, punti di vista ed opinioni entro il quale la mente non educata rimane intrigata.

    Sembra quasi che il processo di purificazione consista nel dismettere conoscenza, invece di accumularla. Sembra che gli eventi non abbiano più un chiaro inizio ed una riconoscibile fine quando si comincia a considerare l’intreccio di concause da cui originano ed i rivoli che ne conseguono. Sembra che il calarsi in una prospettiva più profonda renda la realtà meno definibile; ed oggi, se mi si chiedesse che cosa è la mente, non saprei che dire.

     

     

    Il Grande Desiderio del Nirvana 

    di Rodolfo Savini

     Parlare di questo o quel desiderio è facile perchè ne abbiamo sempre qualcuno sotto mano, sono il tessuto della nostra stessa attività mentale. Nell’insegnamento del Buddha si parla però di un “Grande Desiderio” e qui la comprensione può essere meno chiara e quindi anche maggiori i rischi di un fraintendimento. La difficoltà dell’argomento richiede di avvicinarlo sia attraverso lo studio e il pensiero, sia attraverso la pratica meditativa formale, seduta e camminata. La prima attitudine ci aiuta a coltivare la chiarezza mentale evitando gli ostacoli creati da sensazioni superficiali, la seconda ad assimilare tale chiarezza riconducendo al corpo, in senso più ampio, intuizioni capaci di smussare l’abituale panorama mentale stretto dall’abitudine a “sapere già tutto”, ad esprimere un giudizio su tutto. Tale è l’apporto del raccoglimento meditativo,  dell’attenzione sul respiro e della consapevolezza su ciò che accade. 

    Per comprendere la difficoltà del sentiero verso una più chiara visione del Grande Desiderio dell’illuminazione e del risveglio dal torpore della coscienza, ci potrebbe essere d’aiuto un confronto con il training di un medico. Al medico sono richiesti anni e anni di studio per sapersi orientare con sicurezza nelle proprie diagnosi e terapie rivolte alla guarigione, nondimeno la pratica meditativa, in tutti i suoi aspetti, è anch’essa un processo di “guarigione” dalle molteplici resistenze egoiche che creano una continua separazione sé/io/altro. La separazione è fonte, se non compresa, di risoluzioni che sfociano spesso in atteggiamenti aggressivi e violenti o passivi e rassegnati. Per orientarsi verso una comprensione e un’esperienza cioè l’insieme unitario delle indicazioni che il Buddha trasmette per liberare l’uomo dalla sofferenza, non è sufficiente la lettura frettolosa di un libro e qualche ritiro.

    Ciò che vediamo con l’ “occhio” ordinario, con i nostri cinque sensi e sintetizziamo con la mente, non è altro che il contatto con  le tante sensazioni che si sovrappongono caoticamente creando fraintendimenti (giudizi-pregiudizi) e certezze che si risolvono spesso in autoinganni. L’”occhio” ordinario non riesce ad accogliere e rielaborare gli innumerevoli stimoli che provengono dall’apparato sensoriale, questi lo sommergono e ciò dà l’avvio ad un ineluttabile processo di dipendenza.

    Vi è anche la possibilità di coltivare l’ “occhio” interiore che non ha niente a che fare con i sensi ed è svincolato da attrattiva-repulsione (cioè dipendenza) cui essi danno origine. Coloro che lo possiedono spesso vengono descritti come “ciechi”, si veda l’esempio di Omero o ancora quel passo della Bhagavad Gita (II,69) dove si dice “In quella che è notte per tutti gli esseri in quella veglia chi è padrone del sé; ed è notte per il saggio veggente ciò che per gli altri esseri è tempo di veglia”.

    Ci troviamo quindi al cospetto della necessità di “ricondizionare” la nostra mente. Che cos’è il Nirvana? Una sua “definizione” ci può essere data attraverso il Nobile Silenzio. Non si tratta di agnosticismo, di un silenzio fatto di disinteresse per la questione. È anch’esso un veicolo con una propria capacità comunicativa che può orientarci, nell’insegnamento del Buddha stesso, attraverso un “lasciar andare” da un lato e una “fede/fiducia” non-condizionata dall’altro.

    Attraverso il “lasciar andare” ci accorgiamo che il Nobile Silenzio è al di là della rete di pensieri e sensazioni. Ora questo ostacolo viene riconosciuto come un condizionamento che la consapevolezza è chiamata ad attraversare; è qui che prende corpo la definizione del Nirvana come “cessazione”. Con la presenza mentale i legami fatti di attaccamento, avversione e dubbio si recidono lasciando di conseguenza emerge più chiara la “destinazione” e il “sentiero” da percorrere.

    Si legge nel testo “Così è stato detto” (Itivuttaka-Khuddakanikaya,4 -  II,6):

    “La serena via di salvezza da tutto ciò che è al di là del ragionamento, è stabile, non-nata, non-prodotta, è una condizione priva di afflizioni, limpida, è la cessazione di ogni sofferenza, la beatitudine cha pacifica il condizionato”

    Attraverso la”fede/fiducia” si coltiva una intuizione non definibile; un fiuto per il profumo dell’incondizionato. Qui affonda e si dissolve ogni forma di conoscenza, anche la più sublime, per lasciare spazio alla fiducia che il Buddha ci comunica con la sua stessa esperienza; questo spegnersi di ogni conoscenza, la “cessazione”, è il setaccio del Nobile Silenzio, in cui rimane solo “qualcosa” di non-prodotto, di non-causato. E’ quel “vuoto” in cui l’apparire della più piccola sensazione acceca come un lampo e stordisce come un tuono; ma quel “vuoto” è anche il palmo di quella mano su cui si posa, accolto con serenità, benevolenza e compassione, ogni più piccolo attimo della nostra giornata, annoiata o turbolenta che sia.

    Il Nirvana etimologicamente indica l’atto (ni)  di slegare (van). Si tratta di slegare la coscienza dal “fuoco” che la brucia tramite quel coacervo di avversioni, dubbi, attaccamenti, la fiamma dell’ignoranza. Alcuni, soprattutto lungo la strada della filosofia occidentale possono presentare questa cessazione con una vena di negazione totale; altri ne parlano come di un fuoco che, purificando, riconduce alle potenzialità, alla sorgente primordiale, alla sostanza eterna. L’insegnamento del Buddha non si lascia rinchiudere né nell’una né nell’altra. La sua è la “via mediana” e chi ne segue gli insegnamenti può

     “estinguere il fuoco della concupiscenza  riconoscendo in ogni momento ciò che è impuro. In virtù della gentilezza amorevole (metta), poi, gli uomini migliori estinguono il fuoco dell’avversione e, in virtù della saggezza che conduce all’acuta intuizione, il fuoco della confusione (…) esercitandosi con zelo, notte e giorno, ottengono la perfetta liberazione, senza residuo, e superano in maniera definitiva la sofferenza e (…) non vanno più incontro a nuove esistenze” (“Così è stato detto” V.4) 

    Il rapporto con i desideri costituisce il valico tra una vita di sofferenza e una vita di serenità. Il problema non è tanto avere o non avere desideri, il problema centrale e più profondo è quello di “credere” ai nostri desideri, di farli “nostri”, cioè di renderli una “sostanza” fonte di cause-effetti, da cui scaturisce la catena del condizionamento. Ai nostri cinque sensi, vista, udito, olfatto, gusto e tatto, si assomma la mente. Così come i primi hanno per oggetto ciò che è loro direttamente connesso, la mente ha per oggetto i pensieri. Il compito di “chi” è trascinato dal fiume del divenire è indagare la natura di questo legame tra l’apparato sensoriale e i rispettivi oggetti. Costui, questo “io” è, nell’esperienza del Buddha, è un “aggregato” di più elementi. Il corpo e la forma, le sensazioni, le percezioni, i samskara (gli “artefatti”, cioè che è “fatto” dal nostro agire, impulsi prodotti da ogni attività) e la coscienza che ne è il tronco.  

    In riferimento p.es. alle sensazioni si può sottolineare che ad un primo sguardo possano sembrare fonte di dolore solo quelle più turbolenti dovute all’avversione e al desiderio. Quelle neutre, cioè legate al dubbio, possono sembrare prive di significato, “spente” e tali da non costituire una minaccia per la nostra persona. Eppure sono proprio queste ad essere un pericolo da non sottovalutare per la nostra presenza mentale, perché danno modo al torpore e all’indolenza di far emergere inquietudini e dubbi radicati nella profondità della nostra coscienza assai più difficili da riconoscere, smussare e dissolvere.

    La presenza mentale, nel suo osservare i contenuti della mente così mutevoli e volubili, deve avere un saldo radicamento nel corpo per evitare che il praticante soggiaccia alla lusinga dei pensieri, alle suggestioni piacevoli e spiacevoli, che essi generano dentro di noi e che è facile scambiare per la “realtà” ultima, quando invece sono ancora nient’altro che pensieri condizionati da cause ed effetti.

    La forza attrattiva del desiderio è sempre viva, oggi come ai tempi del Buddha, ma il problema non consiste nel valutare quando storicamente era più forte o meno; questo atteggiamento ci  allontanerebbe da ciò che costituisce l’elemento centrale del desiderio. Il problema non è come e che cosa desiderare, il problema con cui confrontarsi è il desiderare stesso, perché è da lì che scaturiscono le mille scintille dell’ignoranza.

    Nella pratica di consapevolezza elementi centrali sono quindi, oltre lo  studio e la meditazione formale, la capacità di smussare la tenacia dei desideri alimentando le virtù di dana e sila. Accenniamo soltanto in questo ambito che con il primo termine si indica il donare, che da un donare il sovrappiù, il superfluo, diviene un donare  “regale” che è la massima povertà, il dono di sé. Con il secondo lo sguardo del praticante volge ad un amore via via più aperto, universale, ad una gioia aperta e partecipe. Non troviamo, negli insegnamenti del Buddha, alcun imperativo etico. I suoi insegnamenti e precetti sono il frutto della sua stessa esperienza e il praticante li condivide appieno se divengono essi stessi parte integrante e motivante del proprio processo di sviluppo psicologico.

     

     

    Il nobile ottuplice sentiero  

     

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