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Trimle apr – giu 2009 n° 2 Anno XI

 

Il Trimestrale n° 2

aprile – maggio- giugno ‘09

 

Non è obbligatorio soffrire                di Massimiliano Foglini

Nel giusto momento                              di Ludovico Petroni

 

 

 

Non è obbligatorio soffrire                di Massimiliano Foglini
La maggior parte della  nostra sofferenza deriva principalmente dal fatto che non riusciamo ad ottenere quello che vogliamo. E quando non riusciamo ad avere ciò che desideriamo, solitamente c’è una voce dentro noi che si domanda: “E adesso cosa faccio?”.

 Osservando in profondità e concentrandoci proprio sul ‘dialogo interiore’, possiamo notare la supposizione che tutti i nostri problemi si possano risolvere ‘facendo’. Ma la pratica ci invita a spostare la nostra attenzione dal -contenuto della sofferenza- all’ -osservazione del processo-; questo cambio di prospettiva fa sì che la sofferenza cessi o almeno allenti la sua presa.

Come mai però, puntualmente la sofferenza si ripresenta? Questo avviene perchè siamo profondamente convinti, erroneamente, che ognuno di noi sia separato da tutto il resto. La sensazione di essere separati si chiama ‘egocentrismo’ ed è l’ego che si chiede:”Cosa devo fare?”. In realtà non c’è niente da fare proprio perchè non esiste un sè separato; pensare che ci sia un qualcosa di noi contrapposto alla vita è la grande illusione dell’egocentrismo.

Ma da dove nasce questa illusione? Da tutto quella che ci hanno insegnato, raccontato, spiegato; intorno a noi ogni cosa ci condiziona a credere alla separazione ed alla nostra giusta collocazione nel mondo:”Dovresti essere così… Dovresti comportarti cosà…” Cosa siamo e sentiamo veramente non solo passano in secondo piano ma a volte si scontrano con i condizionamenti. Credere che la vita dovrebbe essere diversa da quello che è, è sofferenza! Ed è sofferenza anche quando pensiamo che nella vita ci sia qualcosa di sbagliato che va cambiato o modificato.

E’ molto difficile vedere questo processo in noi perchè è molto pervasivo ma la pratica di consapevolezza fa proprio questo: “Osserviamo il nostro comportamento egocentrico come unico modo per vivere liberi dalle sue costrizioni”.

Ogni volta che giudichiamo ci separiamo da ciò che stiamo giudicando, ma è solo il nostro ego che crede di essere separato dalla vita. Riconoscere l’illusione della separazione, comprendere che non esiste alcun sè separato, che non c’è un’alternativa alla realtà dove la vita è diversa, vedere che non c’è un’altra scelta… allontana la sofferenza fino a farla svanire.                                                                                                 

Alcuni ‘strumenti’ per mettere fine alla sofferenza sono: “La meditazione, esercizi di attenzione-consapevolezza, ritiri di silenzio, gruppi di meditazione”. Iniziare un qualche tipo di pratica creerà in noi una ‘resistenza’, le ‘vocine interiori’ si opporranno:”Ma cosa stai facendo? Non è così che smetterai di soffrire. Questa cosa crea altra sofferenza. So io come non soffrire”. Questa è la voce dell’ego, e non metterà mai fine alla sofferenza perchè l’egocentrismo è la sofferenza stessa.

L’unica maniera per far cessare la sofferenza è capire il processo che ci fa credere alla nostra separazione da tutto ciò che è. Ricordiamoci sempre che ogni volta che ci accorgiamo della visione errata, ogni volta che andiamo al di là del condizionamento egocentrico, le ‘vocine’ dell’ego ci diranno che stiamo sbagliando e chissà quante altre sciocchezze. Poter parlare con qualcuno del proprio dialogo interiore, fa sì che quello che ci sembrava indiscutibilmente vero diventa meno convincente, poterlo raccontare a voce alta ce lo mette in una prospettiva più reale. Ogni esercizio di consapevolezza susciterà in noi anche una reazione alla quale va prestata una particolare attenzione.

La nostra esperienza della vita si basa sulla nostra attenzione. Là dove focalizziamo l’attenzione là si svolgerà la nostra vita. E’ importante comprendere che se focalizziamo l’attenzione su quello che c’è di sbagliato vivremo nel mondo dell’imperfezione; concentrandosi sulle mancanze vivremo in un mondo di deprivazione. Avere un atteggiamento positivo stimolerà un mondo positivo ma (e c’è un grosso ma), ‘positivo e negativo’ sono entrambi dei contenuti e non il processo! La pratica ci ricorda che è molto più utile comprendere come funzionano i processi che cercare di cambiare una parte del contenuto.

Siamo portati a decidere se una cosa è giusta o sbagliata, buona o cattiva, formuliamo giudizi su chi o cosa siamo, sul perchè abbiamo determinati pensieri, sensazioni, reazioni… ma questa è la strada che porta alla sofferenza. La pratica è molto diversa: SEMPLICEMENTE NOTARE! Non ha molta importanza cosa avete pensato, creduto, sentito o fatto in precedenza. Questo è un nuovo giorno.

(Liberamente tratto dal libro ‘Non è obbligatorio soffrire’  di Cheri Huber Ed. Mondadori)

Nel giusto momento                   di Ludovico Petroni

 Qualche volta  può capitare di ricevere informazioni ed indicazioni che percepiamo come contradditorie e che sembrano minare certe conoscenze anche fondamentali già acquisite.

In questi casi è lecito dubitare e, qualora sia possibile, chiedere spiegazioni e chiarimenti ad un insegnante di Dharma. Se le risposte ricevute non vi soddisfano, siete invitati a consultare altri insegnanti in gran libertà.

Alcuni praticanti considerano comunque opportuno stare con la domanda, nel senso di lasciar macerare intimamente i motivi di dubbio e d’incertezza, e possibilmente trovare un luogo di pace anche nel bel mezzo dell’incertezza del non sapere. Spesso la comprensione che deriva dalla propria esperienza personale risulta di valore ineguagliabile rispetto alla comprensione che ci deriva da ciò che ci può esser detto o da ciò che possiamo trovare scritto nei libri.

Così può capitare di cominciare a considerare il senso di percorrere  immaginariamente la Via di Mezzo o Nobile Ottuplice Sentiero come fosse un reale percorso di maturazione personale e sentirsi dire che “non esiste alcun sentiero”.

Può succedere di aver sinceramente dedicato parte della propria vita alla ricerca della verità, alla ricerca di una pace incondizionata, o anche solo alla ricerca di chi o che cosa siamo, e sentirsi, un bel giorno, dire che la “ricerca” di per sé è un’ ovvia manifestazione, come ogni volizione, di una instabilità interiore, di una profonda carenza dell’animo, che nella sua sete ricerca qualche consolazione all’esterno, e che quindi, sia pur nobilmente cercando, finiamo proprio per  alimentare quella sete nella cui estinzione consisterebbe la liberazione.

Nel bel mezzo dell’intenso silenzio di un ritiro di Vipassana, può capitare di impegnarci a mantenere la continuità della consapevolezza tra le camminate e le sedute, e sentirsi dire che “la pratica del non fare è la soluzione.”

Sappiamo che il Buddha ha parlato del Giusto Sforzo più di ogni altro settore dell’Ottuplice Nobile Sentiero, e poi ci sentiamo dire “ non fate nessuno sforzo per raggiungere/ottenere nessun obbiettivo.”

Certe indicazioni ci inducono a mollare ogni tensione riguardo ad ottenere/raggiungere una meta o dei risultati. Se si  riconosce anche in questa volizione la ‘Sete’ ed il suo perpetrarsi,

si riconosce nella tensione a raggiungere l’obbiettivo   proprio quel qualcosa che ci impedisce una pacificazione più profonda che sarebbe un obbiettivo. Infatti è nota la possibilità di ritrovarsi in stati di più profonda realizzazione proprio nel momento in cui si rinuncia allo sforzo.

Emblematica è la storia dell’illuminazione di Ananda.                    

Alla morte del Buddha tutti gli Arahat si riunirono nel 1° concilio con l’intento di ricordare ed organizzare gli insegnamenti del Risvegliato per proseguire la divulgazione del Dharma . Ananda era stato attendente personale del Buddha per gran parte della sua vita , quindi la sua memoria era indispensabile, ma sfortunatamente, proprio per aver dovuto servire il Buddha, Ananda aveva trascurato la sua pratica personale e non era ancora risvegliato. Per partecipare il giorno successivo al concilio dei primi arahat, Ananda doveva sforzarsi di raggiungere l’illuminazione.Si sforzò strenuamente, ma senza risultati. Solo all’ultimo, quando aveva deciso di lasciar perdere, mollare tutto e andare a dormire, proprio sdraiandosi al letto, quando la sua testa stava per posarsi sul cuscino, anche il povero Ananda s’illuminò.

Sembra proprio di assistere ad una progressiva raffinazione dei nostri insegnanti che ci suggeriscono parole sempre più sottili per indicarci come non interferire con il sorgere e svanire di tutti i fenomeni nel proprio cuore.

Così Dayane Rizzetto sostituisce con “let it be” ‘lasciar essere’ lo storico “let go” ‘lasciar andare’, come se nel lasciar andare ci potesse ancora essere una particella di noi che si rifiuta di ridursi  a mera testimonianza e finisce per dare una spintarella.

Attualmente Frank Ostasesky riferisce di non sentirsi più a suo agio con il verbo ‘accettare’ e preferisce adottare il verbo “to allow”, ‘consentire’.

Credo di poter dire che l’idea di fondo riguardo all’attitudine di mera testimonianza indicataci attraverso l’uso di terminologie sempre più sofisticate (lasciar essere, accettare, consentire) si debba al riconoscimento del ruolo delle nostre reazioni mentali nell’alimentazione delle afflizioni. In altre parole, sappiamo che una certa, nota afflizione mentale viene trattenuta quando la sperimentiamo con un coinvolgimento di tipo egoico, quale “mi piace, quindi la voglio” oppure “ non mi piace, quindi la rifiuto”.

Sappiamo come la Metta (meditazione sulla benevolenza universale) accompagni e bilanci la nostra esplorazione interiore, e magari ci viene fatto notare che, in fondo, nell’auspicio al benessere proprio ed altrui, nell’augurio di essere liberi dalle sofferenze, nelle nostre migliori intenzioni di purificare le nostre menti e di migliorarci come esseri umani, ci sia inequivocabilmente il non accettare/consentire che le cose stanno come stanno, o il ‘volere che le cose siano diverse da quello che sono’ (quest’ultima frase a volte viene usata come sinonimo della sofferenza, cioè “sofferenza è volere che le cose siano diverse da quelle che sono”.)

Quindi anche la Metta ci può venir indicata come una “sottile aggressione  alla realtà delle cose così come sono” per usare la terminologia di Pema Chodrom.                                                                                

    Informazioni così contraddittorie possono generare confusione, può sorgere il dubbio, ed in certi casi, il dubbio se non ben trattato, si trasforma in avversione: avversione per la pratica, avversione per gli argomenti così conflittualmente esposti, avversione per gli insegnanti.

Tutte queste indicazioni sono corrette, giuste e benefiche. Magari potrebbe esser solo una questione di opportunità. Soprattutto del quando.

 Il momento in cui certi suggerimenti ci arrivano sembra avere un ruolo cruciale. Un insegnamento nobile non deve esser solo dato alla persona giusta, ma le deve anche esser dato al momento giusto.

Il Dharma dovrebbe essere offerto alla persona adatta nel modo più appropriato e nel giusto momento. Se noi offriamo un saggio e nobile insegnamento alla persona giusta , ma nel momento sbagliato, possiamo sortire pessimi risultati.

Sarebbe come se un giardiniere alimentasse un giovane albero di 4/5 anni con una carriolata di letame ed una secchiata d’acqua. La pianta ne trarrebbe giovamento. Ora, mettiamo la stessa carriolata e la stessa secchiata alla stessa pianta, solo la pianta non ha 4/5 anni, ma è un tenero germoglio di pochi giorni. La uccidiamo.

Questo principio vale per tutto ciò che abbiamo appreso nella vita: noi siamo ciò che siamo, ci siamo sviluppati in un certo modo poiché certi stimoli ci sono giunti nei momenti appropriati ed in un contesto di graduale progressivo aumento della complessità.

Se in prima elementare, invece di aver incontrato una maestra che pazientemente ci avesse introdotto alle somme e sottrazioni, avessimo incontrato un ben più sapiente professore universitario che ci avesse presentato, sia pur corretti, complicati calcoli per misurare la distanza tra le galassie, avremmo lasciato perdere tutto, ne saremmo usciti delusi, mortificati, intimoriti e probabilmente oggi di matematica ne sapremmo anche meno di ciò che ne sappiamo. Pensate, ad esempio, all’importanza del momento dell’incontro con le persone a voi più care. La stessa persona incontrata in altri momenti della vostra vita cosa avrebbe significato?

Così certi nostri insegnanti, con le loro migliori intenzioni, ci aprono il loro cuore con commovente generosità,  ma senza la particolare accortezza di considerare la effettiva assimilabilità di certe indicazioni, senza poter possibilmente verificare nel tempo quali possono essere stati i risultati di certi insegnamenti sugli studenti.

Questo tipo di ‘sorveglianza’ è possibile in un contesto di divulgazione di tipo monastico con il tradizionale durevole rapporto discepolo – maestro.

Oggigiorno, invece, possiamo venir esposti alle più preziose rivelazioni originate dai più variegati background                                                     

 spirituali di insegnanti che, molto fortunatamente, possono raggiungere i nostri centri di meditazione con poche ore di volo da qualunque angolo del pianeta.

Una sensibilità diversa riguardo all’opportunità (soprattutto il momento) di offrire particolari prospettive d’insegnamento può esser avvertita dall’insegnante di tipo ‘residenziale’, cioè colui o colei che ha la possibilità di controllare nel tempo i risultati degli insegnamenti impartiti ad un determinato gruppo di studenti noti. E’ probabile che, in queste condizioni, gli insegnanti adottino una particolare sensibilità e parsimonia nell’offrire certi insegnamenti.

Del resto, ormai sappiamo che offrire insegnamenti di Dharma a persone sbagliate o al momento non  pronte può rivelarsi deleterio. Sappiamo anche che certi temi, pur essenziali per quanto riguarda la liberazione finale e la intuizione suprema della realtà, possono generare confusione e concettualizzazioni fuorvianti (ad esempio le accessibili implicazione del “Non Sé”, oppure concetti di vuoto, niente, dualità, realtà oggettiva/assoluta contro realtà relativa/condizionata/mondana).

Perfino certe considerazioni strutturali e basilari della dottrina buddista nella sua forma originale andrebbero rivelate solo al cospetto di una ormai consolidata fiducia nella pratica meditativa. Credo di poter dire che ciò che ho appena esposto (l’esigenza di  offrire insegnamenti appropriati al livello di comprensione/assimilazione dello studente) motivi coloro che ho chiamato ‘insegnanti residenti’ a separare e distinguere studenti esperti da principianti, offrendo loro una diversificata alimentazione spirituale  in corsi separati.

L’uso saggio dell’appropriato mezzo salvifico trova la sua canonica rappresentazione nella parabola della zattera, ove un uomo che, lungo il suo percorso, si trova a dover attraversare un fiume, convenientemente assembla e lega insieme fasci di rami per costruire una zattera sulla quale attraversa il fiume. Una volta raggiunta l’altra riva, invece di continuare il suo cammino trascinandosi dietro la sua ormai inutile zattera, convenientemente l’abbandona sulle rive del fiume appena guadato.

Queste sono semplici considerazioni riguardo a dubbi e indicazioni incompatibili che a volte s’incontrano nella pratica. Conviene considerare come sia naturale incontrare contraddizioni e come non sia necessario scornarsi per trovare soluzioni possibili . Mi auguro che questo mio tentativo contribuisca alla chiarezza

Infine ricorderei la frase tipica con cui il Dalai Lama termina solitamente i suoi discorsi: “ Se avete trovato     qualcosa che possa sembrarvi utile e benefico in ciò che ho detto, allora fatene il miglior uso e lasciate perdere il resto”.

Quindi, dopo aver così compreso che assolutamente tutto il mondo è toccato dalle fiamme del dolore, colui che pensa: “come per me il dolore è spiacevole, esso è altrettanto spiacevole per gli altri” deve rivolgere la compassione verso tutti gli esseri.

A questo punto, colui che riflette in tal modo deve indirizzare  la compassione innanzitutto verso gli amici che in quel momento stanno sperimentando le varie sofferenze. Poi, non vedendo differenza tra gli esseri a causa della loro identità, egli così considera: “Nel samsara senza inizio  non c’è essere alcuno che non sia stato mio congiunto per centinaia di volte”, deve volgere la compassione verso le altre persone a cui non è legato da vincoli di amicizia o di parentela.

Quando la compassione diviene eguale verso queste ultime come verso gli amici, allora può essere volta nello stesso modo pure verso l’insieme dei nemici, ponendo mente all’eguaglianza degli esseri. E quando essa è perfettamente equilibrata anche verso i nemici così come verso gli amici, il praticante può indirizzarla via via verso tutti gli esseri nelle dieci direzioni.

E quando questa stessa compassione è uguale verso tutti gli esseri e fluisce spontanea sotto forma di desiderio di sradicare il dolore insorto, simile a quello che si prova di fronte a degli amati figlioletti sofferenti, essa è completamente sviluppata e prende il nome di Grande compassione, di mahakaruna.

Da:  Bhavanakrama “I prograssi nella meditazione”Primo Trattato”  2.3

 Come si deve praticare la compassione  Kamalasila

 

 

 

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