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Trimle lug – sett 2003 n° 3 Anno V


  • Anno V n° 3 ( Luglio – Agosto – Settembre )  

  • La psicologia occidentale e il Buddhismo (Elisabetta Forasassi)
  • Sul Dolore. I dolori del giovane Bourgà  (Ludovico Petroni)
  • Thich Nhat Hanh: nuova energia alla meditazione(Lucia Morellato) 
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    La psicologia occidentale e il Buddismo 
    di Elisabetta Forasassi

    La psicosintesi non è una dottrina o una “scuola” di psicologia… Non c’è una posizione ortodossa nella psicosintesi e nessuno, a cominciare da me, dovrebbe esserne considerato il rappresentante esclusivo o il leader. Ciascuno dei suoi esponenti cerca di esprimerla e di applicarla nel modo migliore che conosce, e tutti coloro che leggono o ascoltano il suo messaggio o sperimentano i benefici che ne provengono, possono decidere quanto successo un esponente abbia avuto o avrà nell’esprimerne lo “spirito”.

    R. Assagioli

    La psicosintesi si è sviluppata come metodo di cura inclusivo che integra ogni aspetto dell’essere. Il suo fondatore la chiamò inizialmente Biopsicosintesi includendo il rapporto col corpo, la mente e i piani di evoluzione della coscienza cosiddetti spirituali. Diceva infatti: “E’ spirituale tutto ciò che si riferisce al dispiegamento, o al vero progresso, dell’umanità… stiamo iniziando a destarci dalla realtà di una grande Vita in cui ci troviamo immersi…”.

    L’esperienza spirituale, o transpersonale, come lui stesso la chiama, è effettivamente il centro della sua concezione psicosintetica, anche se spogliata di ogni etichettatura istituzionale e non formalmente a favore di una Religione costituita.

    Essenzialmente si mira ad aiutare con tecniche e metodi neutri a conseguire l’esperienza diretta.

    Però Assagioli era anche psichiatra e aveva anche ben chiaro che prima di parlare di “transpersonale” occorre anche proporsi una psicosintesi “personale”, per renderci individui più armonizzati col mondo trasversale e anche perché lo spirituale non costituisca una fuga da sé e dalle proprie responsabilità.

    Vorrei mostrare quanto il modello di Io psicosintetico sia molto vicino alle concezioni buddiste.

    E’ fondamentale anche per la pratica sviluppare un io psicologico sano, passare dalla frammentazione all’unità della consapevolezza di tutti gli aspetti di sé.

    Senza questo riordino della personalità non può esserci neanche connessione con la spiritualità autentica.

    Il modello dell’unità o della riunificazione di tutti gli stati della coscienza, è per la psicologia di Assagioli, l’Io.

    Questa istanza viene chiamata anche autocoscienza ed è ciò che invece i Buddisti intendono per consapevolezza.

    Per Assagioli l’Io che pur include i contenuti della coscienza come i pensieri e l’emozioni, non è un pensiero, non è un emozione ma è un puro centro di autocoscienza.

    Trovare il proprio io significa avere innescato un processo di disidentificazione dal controllo costituito dalle proprie idee ed emozioni. E’ un attuare gradualmente una distanza psichica perché possiamo padroneggiare e dirigere tutto ciò da cui andiamo disidentificadoci.

    Ma sentiamo che cosa dice Assagioli quando in un intervista gli fu chiesto cosa fosse l’io:

    “Credo che occorra insistere che è un’esperienza. Così chi vuole sapere che cos’è l’Io deve fare l’esercizio di disidentificazione e poi il silenzio… per arrivare alla pura autocoscienza. Questo richiede un allenamento. Quindi l’Io non è una cosa teorica. Se uno desidera veramente andare a vedere se c’è bisogna che vada a casa sua!
    Quindi è inutile continuare a discutere intellettualmente su cosa è l’Io, come se fosse un oggetto”

    Ordinariamente l’Io tende ad identificarsi con i suoi contenuti: sensazioni, desideri, impulsi, emozioni, intuizioni, immagini, pensieri per cui crede di essere ciò in cui si identifica in quel dato momento e non sa riconoscersi come realtà autonoma e indipendente.

    Un altro importante concetto espresso da Assagioli è quello di “allenamento metodico” perché non basta fare un esperienza occasionale dell’Io occorre una disciplina psicospirituale continua nel tempo.

    Assagioli dice “…. Dopo questa preparazione dobbiamo fare silenzio dentro di noi; e questo si può ottenere mediante i vari stadi della meditazione… E’ importante attraversare… il livello emotivo ed immaginativo e non disperdersi nelle impressioni psichiche…”.

    La coscienza deve essere tenuta ad un alto punto di tensione interna. Questa tensione, che è una consapevolezza vigile, una “presenza” spirituale a noi stessi, è la condizione essenziale per ogni conquista spirituale. Essa può essere considerata una combinazione dell’intenzione e dell’attenzione.

    “… Questa tensione è seguita dal silenzio, un silenzio vivente, che crea le condizioni necessarie per ogni rivelazione”
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  • Sul doloredi Ludovico Petroni
    I dolori del giovane Bourgà

     Nato da padre marocchino e madre francese, Bourgà aveva sempre avuto una gran passione per le arti marziali. Quando fu il momento si arruolò nella Legione Straniera, ove si specializzò nel “corpo a corpo”. Dopo oltre otto anni in divisa, avendo messo su un buon gruzzoletto e nessun affetto, lasciò la Francia per l’Oriente. La box Tailandese è uno sport molto cruento, ove si usano anche calci, ginocchiate e gomitate. Il boxer deve obbligatoriamente stipulare una polizza assicurativa, anche solo per coprire le spese del Pronto soccorso, cui, vincente o perdente, deve comunque ricorrere alla fine di ogni incontro per ricucire tagli, medicare contusioni e fratture varie. Buorgà dichiarava 1 incontro perso su 99 combattuti.
    Per motivi che ignoro, un bel giorno prese i voti di monaco per 7 o 8 mesi in un monastero dall’ordinazione facile della Tailandia centrale. Le vie del Dharma sono infinite e Bourgà se la cavava davvero male con le lingue che non fossero la sua; così, solo una signora Tailandese, insegnante di Francese e, per ironia della sorte, cristiana, gli potè indicare un monastero rinomato per offrire l’insegnamento del Buddismo agli occidentali. Bourgà approdò a Wat Pananachat (il monastero di Achaan Chaa) come laico, intenzionato a rimanere per 3 mesi per imparare i “rudimenti” del Buddismo e quindi fare ritorno al grande monastero delle pianure centrali, ove avrebbe intrapreso studi più elevati sulla magia e l’acquisizione di poteri sovrannaturali.

    Queste erano le intenzioni di Bourgà quando io lo incontrai.

    Un giorno gli chiesi se avesse mai sentito la parola “Dukkha” e se ne sapesse il significato: disse di no. La mattina seguente a questa nostra conversazione Dukkha ricorreva svariate volte nei canti in Pali che aveva deciso di memorizzare e di recitare quotidianamente, peraltro senza beneficio di comprensione.

    S’informò riguardo a quella parola e seppe, dopo essere stato monaco per 7/8 mesi, che il Buddismo aveva a che fare con la sofferenza.

    Aveva tremende difficoltà a sedere a gambe incrociate per terra. I muscoli tiravano e lo rattrappivano penosamente. La schiena rimaneva curva e le ginocchia una buona spanna sollevate da terra. Si sforzava in tutti i modi per spingere in basso quelle ginocchia e, ovviamente, non poteva sedere a lungo, anche quando lo incentivai proponendogli la mia lanterna come trofeo se fosse riuscito a seder immobile per mezz’ora. La chiamavamo “la vera lanterna del monaco della foresta” ed era una lattina tagliata da un lato ove veniva inserita una candela che, anche camminando, non si spegneva.

    Gli era piaciuta molto, ma non la vinse mai.

    Ce la metteva veramente tutta per conquistare quella posizione.

    Una sera decise di incastrarsi nella posizione a gambe incrociate contro le pareti di legno della sua capanna in qualche modo. Quando però, dopo una ventina di minuti, decise che ne aveva avuto abbastanza di quella tortura autoinflitta, scoprì di non potersi più liberare e si rese conto che doveva chiamare aiuto! Ma avrebbe dovuto urlare parecchio, perché la capanna più vicina era la mia, ad almeno 70 metri nella foresta. Poi, con militaresca abnegazione e sprezzo del pericolo, finalmente si buttò su un fianco e si liberò.

    Verrebbe da deridere il povero Bourgà per la sua ottusità, ma pensiamoci bene. Potessimo tutti noi cessare di combattere come ha cessato il buon Bourgà!

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  • Thich Nhat Hanh: nuova energia alla meditazione
  • di Lucia Morellato In questo ritiro Thai ha riacceso la mia fiamma, è stata per me una cosa grande e te la voglio raccontare.
    Nei primi giorni ero contenta di essere lì, ma ero un po’ disorientata, inquieta e intollerante (seppure controllata) eravamo in troppi (intorno ai 700) e il fatto che era permesso parlare, mi toglieva quella libertà che in queste situazioni, mi dà la regola del silenzio. Vedevo nelle persone che conoscevo (16) insieme al piacere di essere insieme, una continua minaccia alla possibilità di interiorizzazione. Gli spazi erano limitati, ero confusa e dispersiva, avevo mal di testa, diventavo critica e giudicante; insomma stavo scomoda ed ero irritata a dir poco, soprattutto per l’atteggiamento di chi disturbava il mio desiderio di solitudine, coinvolgendomi senza riguardo nella sua bisognosa mancanza di autonomia; insomma non trovavo pace. Ero sul punto di perdere la testa quando, durante una condivisione (nota bene) ho sentito finalmente che i conflitti cominciavano a sciogliersi, ascoltare e parlare mi faceva bene. Lentamente ho cominciato ad aprire il cuore, alternando momenti di grande consapevolezza (dove riconoscevo e accettavo la mia fragilità) a ondate di commozione per questo mio nuovo stato di benessere incondizionato, un’esperienza nuova e profonda. Via via che passava il tempo, sentivo l’abilità a rimanere nel presente per lunghi momenti, era facile! Mai prima d’ora avevo vissuto così, se non qualche momento magico che poi immancabilmente se ne andava. Le persone che prima m’irritavano, ora le comprendevo. Le parole del Maestro arrivavano diritte al cuore lente e profonde e mi trovavano aperta e riconoscente.
    Al ritorno a casa, mi sono trovata in situazioni difficili e delicate che ho traversato con leggerezza e compassione. E’ una sorpresa vivere in uno stato continuo di gioia, vivere i miei respiri dentro tutto il corpo, non solo nel petto, senza nessuno sforzo di volontà. Sentirsi centrata e radicata, come se quasi vent’anni di pratica, seppure vissuta in modo un po’ discontinuo, mi dessero ora tutti i risultati che non avevo ancora raggiunto.
    Vivere finalmente nel presente senza paura. La mente c’è come sempre, ma non interferisce negativamente, se mi perdo, riprendo il controllo in pochi respiri, la commozione mi sorprende ancora, la consapevolezza mi accompagna. Sono presente, tutta intera e piena di gioia. Non mi sento isolata, orfana e lontana dal resto del mondo.
    L’ultimo giorno, prima dell’addio, Thai ci ha salutato con poche semplici parole dicendo che ci portava nel suo cuore. Io ero immersa in un pianto dolce e profondo, alzando gli occhi ho visto che eravamo centinaia immersi nello stesso pianto.
  • “… La felicità consiste nella concordia della comunità. Colui che sostiene la concordia, che in essa è felice e si basa sul Dhamma, costui non perde la possibilità d’affrancamento dai legami. Creando una Comunità compatta, egli gioisce per un intero evo”.
    Itivuttaka – Così è stato detto – (Khuddakanikaya).
     

     

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